di Liana Marabini
È una tarda mattinata di ottobre, siamo nel 1323 ad Alvalade, una frazione di Lisbona.
Due eserciti, uno di fronte all’altro, sono pronti per la battaglia. Il silenzio greve è interrotto solo dal grido degli uccelli, che volteggiano nell’aria tiepida. Una leggera brezza porta il profumo degli alberi di agrumi, che impregna l’aria.
Una carrozza scura con le armi reali dipinte in oro sulla cassa si ferma poco distante. Il cocchiere aiuta a scendere una donna fragile, vestita di nero, che si avvicina decisa. Passa nello spazio che separa i due eserciti, con l’abito nero mosso dalla brezza e la grande croce d’oro appesa al collo, che lei stringe nella mano, come per assorbirne la forza. Un raggio di luce l’accompagna e si allunga, diventando una barriera luminosa che separa i due eserciti. Lei non dice una parola, guarda avanti e continua a caminare. Sul suo passaggio la luce si fa più intensa. Gli uomini si mettono in ginocchio, da una parte e dall’altra e abbassano la testa.
Lei è la regina del Portogallo, Elisabetta.
I due eserciti sono stati riuniti da due uomini, padre e figlio, il re Dionigi del Portogallo e il principe ereditario Alfonso (divenuto poi re con il nome di Alfonso IV). Entrambi sono cari al suo cuore, uno è il marito, l’altro il figlio e l’idea di vederli dilaniarsi la atterrisce.
Ha pregato tutta la notte nella sua cappella privata, è rimasta in adorazione e il Signore le ha mostrato la via. Ha pensato che anche quei soldati sono figli di qualcuno, mariti di qualcuno. E ha deciso di andare a vederli, chiedendo la luce all Spirito Santo. Ed è stata esaudita. I due eserciti si ritirano, lo spargimento di sangue è evitato.
Questo è un episodio della vita della futura Santa Elisabetta del Portogallo (1271 – 1336), menzionato in un manoscritto conservato nella Collezione Parra.
Ma questo gesto le costò la libertà, perché il marito l’accusò di essersi schierata con il figlio e la bandì da Corte, relegandola in una fortezza. Ne uscì alla morte del re: donò la corona al Santuario di Compostela, dove fece pellegrinaggio. Poi regalò tutti i suoi averi ai poveri e ai conventi e diventò francescana del terzo ordine, ritirandosi nel monastero delle Clarisse di Coimbra (dove avrebbe concluso la sua esistenza terrena).
È una donna che ha dedicato la vita alla famiglia, al suo Paese e a Dio. Era soprannominata “la pacificatrice”, perché aveva la capacità di smorzare i conflitti e riportare la pace (come nell’episodio sopra descritto).
Fu canonizzata nel 1625, sotto il Papa Urbano VIII e la sua ricorrenza è festeggiata il 4 di luglio. È l’unica Santa patrona degli enologi (quasi tutte le professioni hanno più di un patrono, ma gli enologi hanno solo lei).
Sant’Elisabetta del Portogallo e il vino hanno storie che si intrecciano. Tutto ebbe inizio ancora prima che lei prendesse i voti, nel monastero stesso delle Clarisse di Coimbra (da lei fatto costruire mentre era regina). Il monastero si trovava in mezzo ad una grande distesa di vigne. Qui la regina decise di produrre il vino per la Messa di tutte le chiese del Portogallo.
Le Clarisse lavoravano la terra e le viti, ma per fare un buon vino la regina mandò don Edoardo de Aviz, grande commerciante di vini e conoscitore senza pari della “chimica” del vino. Fu lui che “compose” il vino delle Clarisse, abbinando diversi vitigni, sorvegliando le grandi botti nelle quali il vino maturava e controllandone il trasporto poi verso le più remote contrade portoghesi e le loro chiese.
Don Edoardo era un enologo. Era navigatore e commerciante di vini in un’epoca in cui il Portogallo predominava in questo commercio. Avevano raggiunto il successo vendendo vino all’Inghilterra, alle Fiandre e alle città della Lega anseatica, strappando lo “scettro” di questo commercio a Castiglia ed Aragona.
Il Portogallo aveva conquistato il mercato ed ora difendeva la sua indipendenza commerciale con la forza delle armi. Le lunghe lotte per cacciare i Mori con l’ausilio dei crociati stranieri e dei Cavalieri templari, diede un sigillo religioso al desiderio di conquiste. In nessun altro popolo era così profondamente insito l’antico spirito delle crociate. Fare la guerra contro l’islam apparve allora ai portoghesi il loro naturale destino ed un dovere come cristiani.
In questo contesto il vino diventa un simbolo e la necessità di mantenerne alta la qualità forgia la figura professionale dell’enologo, che inizia là dove quella del vignaiolo finisce. L’enologia è una scienza complessa e l’enologo una figura professionale che segue tutte le fasi della produzione del vino: dalla produzione dell’uva, alla definizione del protocollo di lavorazione, alla valutazione della qualità dell’uva, fino all’imbottigliamento ed alla commercializzazione del prodotto finito.
In realtà è una professione antica, iniziata ben prima dell’epoca di Elisabetta. Se analizziamo i documenti che parlano della scienza di fare il vino, troviamo già nel III secolo a.C. gli scritti di Magone il Cartaginese, autore di un trattato di agronomia in 28 volumi in lingua fenicia che avrebbe costituito, per tutto il periodo classico, una delle fonti più significative sull’argomento. Il testo originale è andato perduto, ma sono sopravvissuti dei frammenti delle traduzioni in greco e latino. Nel 146 a.C., la terza guerra punica si concluse con la distruzione di Cartagine ad opera dei Romani. Il contenuto delle biblioteche puniche venne consegnato ai sovrani numidi – alleati di Roma – con l’eccezione dell’opera di Magone che fu traslata a Roma dove sarebbe stata tradotta in latino da Decimo Silano. L’opera – già popolare per la traduzione in greco di Cassio Dionisio, contemporaneo di Magone – fu successivamente riadattata da Diofane di Nicea che la suddivise in sei volumi.
Il primo trattato di viticoltura ha invece come autore Teofrasto (371-287 a.C.). Nella sua opera “Ricerche sulle piante”, analizza la fisiologia della vite, i metodi di potatura e le malattie che la attaccano. L’autore descrive i metodi dei viticultori greci, che non sostenevano le viti con la pergola, come facevano gli Egizi o come poi avverrà in Italia. Lasciavano invece le vigne basse, appoggiate al suolo, a eccezione dei sostegni necessari per proteggerle dall’umidità. Teofrasto fu discepolo di Aristotele a cui succedette nella direzione del Liceo (il Peripato) nel 322 a.C.
Si susseguirono: Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), la cui opera “De agricoltura” del 160 a.C. è la prima opera intera in prosa che ci sia pervenuta in lingua latina e da la misura di quanto la viticoltura pesasse nell’economia agraria italica intorno al II secolo a.C. Poi fu la volta di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) che nel “De re rustica” fa una “fotografia” dell’enologia del suo tempo; Strabone (58 a.C.-21 d.C.), autore della “Geographia”, nella quale troviamo il resoconto più completo della distribuzione della viticoltura e dei vini del “mondo conosciuto” alla fine della Repubblica e al principio dell’Impero (paesi mediterranei).
Nella nostra era dobbiamo citare Columella (4 – 70 d.C.) autore della magnifica opera “De Re Rustica” e che nella Roma imperiale fu il maggior erudito in campo agricolo.
Plinio il Vecchio, vissuto a cavallo tra le due ere, ha scritto un’opera senza eguali, che spazia dal campo agricolo a quello storico, dagli aspetti scientifici a quelli folcloristici dal titolo “Naturalis Historia”: una grande enciclopedia in 37 libri ancora oggi di grande aiuto per comprendere la vita nell’età latina e soprattutto la produzione vinicola dell’epoca.
Rotari (606 – 652) fu re dei Longobardi e re d’Italia dal 636 al 652. I Longobardi trasformano radicalmente la struttura terriera romana e si crea una nuova aristocrazia agricola: ebbero grande rispetto per il vino, simbolo di nobiltà e, come popoli del nord, furono molto attratti dai pretiosa vina italiani. Per ridare forza all’agricoltura e in particolare alla viticoltura, indebolite da secoli di abbandono e di razzie, nel 643 Rotari emano l’“Editto di Rotari” (643), nel quale vi sono articoli che riguardano la protezione della vite che documentano l’importanza attribuita anche a quei tempi alla viticoltura.
Anche Carlo Magno (742 – 814) emana, nel 789 il “Capitulare de Villis et Curtis Imperatoris” (789) una raccolta di norme e disposizioni in cui molti capitoli sono una raccolta di regole agricole e di tecniche dedicati alla viticoltura, al vino e alla sua fiscalità. Il documento era attuato dai “Missi dominici” (gli ispettori del sovrano) che dovevano imporlo nei possessi imperiali. Carlo Magno e i Franchi, avevano un’autentica venerazione per il vino e per la sua qualità: in alcuni articoli del “Capitulare” si impone la massima cura nella pulizia dei vasi vinari e nella preparazione dei vini, e si pretende che i torchi non manchino mai nelle aziende rurali.
Nel Medioevo italiano, Pier de’ Crescenzi (1233 – 1320) è stato uno scrittore e agronomo bolognese. È considerato il maggiore agronomo del Medioevo occidentale (ma è anche studioso di filosofia, di medicina, di scienze naturali e di giurisprudenza). Nella sua opera “Liber commodorum ruralium”, completata fra il 1304 e il 1309, fornisce molte informazioni relative ai modi in cui le tradizioni della viticoltura classica venivano interpretate in Italia durante il periodo medioevale.
Nel Cinquecento troviamo un altro grande enologo: Sante Lacerio (1500 – 1565), “Bottigliere papale” come egli stesso amava definirsi. Curò i vini di Sua Santità Paolo III, che, gracile d’aspetto ma forte di natura, visse e governò la Chiesa fino alla bella età di 82 anni, aiutato nella ricerca dei vini migliori dal fido consigliere Lancerio, a testimonianza che il buon bere aiuta a prolungare in serenità e in sapienza la vita. Il Lancerio può essere considerato, oltre che enologo, anche il primo sommelier in assoluto che aveva la responsabilità sugli approvvigionamenti del vino di Sua Santità, sia in sede che in viaggio. Lacerio seguì il suo compito con capacità e passione, assaggiando, sorseggiando, osservando e consigliando i vari tipi di bevanda. È autore di uno straordinario documento, “Lettera sulla qualità dei vini”, i cui dettagli sono menzionati qui: https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/moderna/letteratura/Lettera-sulla-qualita-dei-vini–Sante-Lancerio.html
Sempre nel Sedicesimo secolo, considerato “il secolo delle grandi bevute”, troviamo Castore Durante da Gualdo (1529 – 1590), medico, botanico e poeta italiano del Rinascimento, che ha pubblicato opere importanti, come “Herbario nuovo” e il “Tesoro della sanità”, nel quale scrive a proposito del vino: “Il vino moderatamente bevuto, partorisce molti comodi all’animo e al corpo, perciò che quanto all’animo si rende più fedele e più mansueto, l’anima si dilata, gli spiriti si confortano, l’allegrezze si moltiplicano, i dispiaceri si scordano, chiarifica l’intelletto, eccita l’ingegno, raffrena l’ira, leva la malinconia, induce allegrezza…”.
Nel Seicento citiamo Dom Pérignon, enologo par excellence, autore della prima “cave” di champagne, che lui ha creato per Luigi XIV (il Re Sole). Era un religioso, “celliere” nell’Abbazia di Hautvillers, universalmente riconosciuto come creatore dello champagne: assemblaggio di uve e di vini, spremitura rapida e frazionata delle uve nere per estrarre un succo bianco e cristallino, utilizzo delle prime bottiglie in vetro spesso e resistente; sostituzione di un cavicchio in legno ricoperto di canapa con un tappo in sughero di Spagna, trattenuto da una cordicella per conservare la spuma; invecchiamento in cantine scavate nel tufo, capaci di assicurare una temperatura costante e di limitare le alterazioni.
E possiamo continuare fino ai nostri giorni, ma ci fermiamo qui, per mancanza di spazio.
Fatto sta che la figura di una donna di fede e nobile regina, rimarrà per l’eternità indissolubilmente legata ad una figura professionale altrettanto nobile, quella dell’enologo.