Riflessioni oziose sul vino

Il vino è cultura, storia, tradizione, identità, ma l’insensibilità di  molti parlamentari europei ha rischiato di disperdere tutto questo; per fortuna il pericolo è stato sventato.

Riassumiamo citando la stampa di settore; parliamo di fatti successi in piena pandemia e prima dell’inizio della guerra.

Altri interessi hanno attirato il pubblico, ma qui ne vogliamo parlare. Difendere il vino è anche un modo di difendere i valori di una Europa autentica.

“È stato respinto il tentativo di demonizzare il consumo di vino e birra attraverso allarmi salutistici in etichetta già adottati per le sigarette, l’aumento della tassazione e l’esclusione dalle politiche promozionali dell’Unione Europea, nell’ambito del Cancer Plan proposto dalla Commissione Europea”.

“C’è differenza tra consumo nocivo e moderato di bevande alcoliche e non è il consumo in sé a costituire fattore di rischio per il cancro”.

È questa una delle modifiche alla relazione sul Piano di azione anti-cancro approvate martedì 15 febbraio 2022 dall’Europarlamento.

Dal testo è stato cancellato anche il riferimento ad avvertenze sanitarie in etichetta, e introdotto l’invito a migliorare l’etichettatura delle bevande alcoliche con l’inclusione di informazioni su un consumo moderato e responsabile di alcol.

“Il Parlamento Europeo salva quasi diecimila anni di storia del vino le cui prime tracce nel mondo sono state individuate nel Caucaso mentre in Italia si hanno riscontri in Sicilia già a partire dal 4100 a.C”, afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel ringraziare per il lavoro di squadra i parlamentari italiani per la difesa di un settore che vale 12 miliardi di fatturato (dei quali 7,1 miliardi di export) e offre direttamente o indirettamente occupazione a 1,3 milioni di persone secondo l’analisi della Coldiretti.

L’esistenza della straordinaria scoperta archeologica del vino in Sicilia in tempi così remoti merita qualche approfondimento. È stato prodotto sotto il sole della Sicilia, quasi 6.000 anni fa, il vino più antico d’Italia e di tutto il Mediterraneo occidentale: i residui sono stati individuati in una giara dell’Età del Rame rinvenuta in una grotta del Monte Kronio, a Sciacca, in provincia di Agrigento. A condurre le analisi è stato un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’archeologo Davide Tanasi dell’Università della Florida Meridionale (già coordinatore dei recenti scavi a Villa Romana), a cui hanno preso parte anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di Catania e gli esperti della Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento. La scoperta, pubblicata su Microchemical Journal e rilanciata dall’ANA (Associazione Nazionale Archeologi), dimostra che la viticoltura e la produzione di vino in Italia sono più antiche del previsto: non sarebbero cominciate nell’Età del Bronzo, come ipotizzato finora, bensì quasi 3.000 anni prima.

Il ritrovamento in Sicilia di giare contenenti i resti del vino più antico d’Italia. Foto © Comunicalo.it

“Ricerche precedenti avevano rinvenuto in Sardegna dei semi di Malvasia datati tra il 1.300 e il 1.100 a.C., ma questi reperti attestano solo la pratica della viticoltura. La nostra ricerca, invece – spiega Tanasi – identifica i residui della fermentazione, che implicano non solo la viticoltura, ma anche la produzione vera e propria del vino”. Le tracce di acido tartarico e dei suoi sali ritrovate nella giara non permettono di sapere se quell’antichissimo vino era rosso o bianco. Anche l’identikit dei suoi produttori non è ancora ben definito: “Sappiamo che questi territori erano abitati da comunità di agricoltori e allevatori, in cui iniziava a prendere piede la produzione tessile – precisa l’archeologo – mentre non abbiamo grandi evidenze di metallurgia”.

Certo, avere una tradizione così antica legata al vino fa dell’Italia una terra di elezione er questo nettare degli Dei. Abbiamo forse più “diritti” degli altri di parlare del vino e di scrivere libri. Infatti la produzione letteraria vinicola italiana è di tutto rispetto.

L’importanza della letteratura enologica, agronomica e viticola in terra italica, a partire dal secolo XIV e soprattutto in quelli successivi, è davvero rilevante. Naturalmente non è pensabile parlare dei libri che si occupano di vino senza fare riferimento ad alcuni elementi tra loro strettamente collegati: lo sviluppo delle tecniche agrarie, del pensiero e delle competenze scientifiche (e del nuovo veicolo comunicativo rappresentato dai caratteri a stampa grazie all’adattamento di un torchio da vino), da cui il maggior potere entro le corti, non senza conflitti col potere temporale papale e laico, degli scienziati; i cambiamenti nell’organizzazione sociale e l’emergere di nuovi ceti produttivi; il potere medico (diversi dei trattatisti di enologia sono ancora medici secondo l’antica tradizione e ciò a significare non solo l’uso del vino nella farmacopea, come già evidenziato nel capitolo precedente, ma anche lo stretto connubio tra piacere e cura di cui l’arte medica e il potere derivante sono ancora pienamente titolari); la concezione del bello e del buono, soggetta a nuovi canoni interpretativi, che si fa strada tra le arti e nella gastronomica.

Occorre cominciare la narrazione dal Ruralium commodorum libri XII di Pier de’ Crescenzi, scritto nel 1305 circa, che viene dedicato a Carlo II d’Angiò, re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309): diffuso come manoscritto in 109 copie, ha la prima edizione a stampa soltanto nel 1471. Poi alcune altre edizioni ravvicinate a fine Quattrocento: In commodum ruralium cum figuris libri duodecim, Speier, Peter Drach, c. 1490-1495; De Agricultura, Venezia, Matheo Capcasal, 1495. E di altre ancora nel Cinquecento: P. Crescenzi, De’ Opera di agricoltura. Ne la qual si contiene a che modi si debbe coltiuar la terra, seminare inserire li alberi, gouernar gli giardini e gli horti, la proprieta de tutti i frutti*, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona vercellese, 1536; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona, 1528; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano, 1538; Id., De omnibus agriculturae partibus, & Plantarum animaliumq; natura & utilitate lib. XII*…, Basileae, per Henrichum Petri, 1548.

L’incipit del libro di Piero de’ Crescenzi.

Le diverse ristampe di un testo divenuto classico indicano l’interesse crescente verso la formazione agronomica e la possibilità della sua diffusione oltre un mero ambito specialistico o di rappresentanza politica. Ed è proprio attraverso de’ Crescenzi che vengono ristampate le opere latine di riferimento dell’autore: Catone, Varrone, Columella* e Plinio il Vecchio*.

I libri citati sono reperibili alla Libreria Antiquaria Emporium.

Con un piccolo balzo in avanti non si può non menzionare lo scritto di Agostino Gallo, il più importante agronomo del tempo il quale pubblica, nel 1564, a Brescia, le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa*: «a questa seguirono tre edizioni veneziane tra il 1565 e il 1566. Nel 1566 dall’officina del veneziano Nicolò Bevilacqua uscì una versione notevolmente ampliata, dal titolo Le tredici giornate; nel 1569 uscì dapprima, sempre a Venezia ma questa volta dalla tipografia di Grazioso Percaccino, un’appendice autonoma intitolata Le sette giornate dell’agricoltura, destinata a confluire, in quel medesimo anno, nell’unico volume de Le vinti giornate dell’agricoltura*. Questa fu l’edizione definitiva e servì da base per tutte quelle successive, che finirono per dare vita ad una vicenda editoriale di assoluto rilievo nel panorama italiano di quell’epoca: dodici edizioni nel corso del XVI secolo (nove a Venezia, due a Torino ed una a Brescia); sei del XVII secolo (tutte a Venezia); quattro del XVIII secolo (a Bergamo, Brescia, Cortona e Roma). L’opera ebbe grande successo oltre che a Brescia e Venezia, anche sul territorio milanese e quello veneto: si ha infatti notizia di contratti di vendita sottoscritti dal figlio di Agostino, Mario Gallo, con librai di Milano, Pavia, Bergamo, Bologna, Piacenza, Verona e Vicenza». Nelle Giornate dell’agricoltura si trovano citazioni e riferimenti a tutti gli autori “canonici” della classicità greco-latina, assieme a quelli della tradizione medievale e della prima età moderna (Pier de’ Crescenzi su tutti, ma anche Arnaldo da Villanova, Dante, Petrarca e Boccaccio). In secondo luogo, l’opera del Gallo è l’unica ad essere tradotta, ancora nel Cinquecento, in una lingua diversa da quella d’origine (francese) e ad essere divulgata nella stessa Francia attraverso più edizioni consecutive.

Più modestamente, e con tutte le differenze del caso, anche chi scrive si cimenta nella stesura di un libro sul vino. È un’opera accessibile a tutti, scritta per dare le basi anche a chi ha poche conoscenze sul vino, per potere scegliere, analizzare ma soprattutto abbinare correttamente i vini ed i cibi. Per la gioia (lo spero) dei miei cari lettori del blog pubblicherò nel tempo piccoli pezzi del libro, che ritengo interessanti e stimolanti, soprattutto sul versante storico e culturale. Il lavoro è intitolato “Vino, parliamone”.

E per farvi sorridere, ecco una citazione celebre: 

“Monsieur, quand on a l’honneur de se faire servir un tel vin, on prend son verre avec respect, on l’observe, on le hume longuement, puis l’ayant reposé…

Et après, interrompt l’impatient, on le boit?

Non, Monsieur, pas encore! Après on repose le verre de vin sur la table, l’on en parle“.

(Charles Maurice de Talleyrand, proprietario di Château Haut-Brion). Talleyrand fu quel noto personaggio politico francese, protagonista del Congresso di Vienna del 1815. Château Haut-Brion è un grande nome che fa parte dell’aristocrazia del vino di Bordeaux, cru classé dal 1855, denominazione Pessac-Léognan, nella regione del Graves.

Château Haut-Brion.

Traduciamo, liberamente:

“ – Signore, quando si ha l’onore di farsi servire un vino così, si prende il bicchiere con rispetto, lo si guarda, lo si annusa a lungo, poi dopo averlo riposto….

– E dopo – interrompe l’impaziente – lo si beve?

– No, signor mio, non ancora. Dopo avere riposto il bicchiere sul tavolo, se ne parla”.

Se ne parla e poi si beve, o meglio, lo si degusta e poi se ne parla ancora.

Altra citazione degna di nota, visto la fama del personaggio (Edoardo VII, sovrano inglese dal 1902 al 1910, figlio della Regina Vittoria: era nato nel 1841) è la seguente: “Il vino non si beve soltanto, lo si annusa, lo si osserva, si sorseggia e…..se ne parla”.

Scene di vendemmia, dal Libro “Tacuinum Sanitatis”, 1450.

Fra i tanti libri sul vino, uno spazio importante viene dato alla degustazione e si spiega diffusamente come iniziarsi all’arte dell’assaggio, un modo per avvicinarsi alla conoscenza della materia. Il vino prima lo si guarda e si osservano con attenzione le varie declinazioni del colore, poi lo si annusa (i francesi dicono “on hume”), mettendo in azione l’odorato per riconoscere i profumi. I sensi – vista, odorato, gusto – sono così soddisfatti e si procede ad una ricognizione materiale del vino. Manca l’udito, ma a questo si rimedia facendo tintinnare i bicchieri.

 A volte si aggiunge una parola – “Salute” – come augurio; esortazione al benessere per ricordarci che anticamente il vino è stato anche considerato una medicina. Nel famoso e pluri-stampato opus “La Schola Salernitana” troviamo una regola per mantenere la buona salute che ci trova totalmente d’accordo: “Se non vuoi avere problemi, comincia ogni pranzo con un bel bicchiere di vino”.

Il vino tuttavia non coinvolge solo i sensi, ma anche il cervello e il cuore. François Rabelais scrisse: “Le vin est ce qu’il y a de plus civilisé au monde”. C’è tanta cultura nel vino, che è un segno della nostra identità; coinvolge la religione, la storia e la geografia, la letteratura e la poesia.

La nebbia agli irti colli / Piovigginando sale / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar;  / Ma per le vie del borgo  / Dal ribollir de’ i tini  / Va l’aspro odor dei vini  / L’anima a rallegrar.

(Giosuè Carducci: Rime nuove, San Martino 1861/1887).

Italiani dimenticati (a Odessa e in Crimea)

Non parliamo di quelli oggi, ma di comunità storiche italiane stabilite in quello che era l’impero zarista.
Fin dai tempi delle repubbliche marinare, Genovesi e Veneziani si erano stabiliti da quelle parti, ma la loro storia è stata dimenticata. Le minoranze italiane furono dissolte e perseguitate ai tempi dell’URSS e dopo la seconda guerra mondiale.
Abbiamo ripescato nella nostra biblioteca un volume del 2000, edizione Giuffrè di Giulio Vignoli. Il titolo del Libro è “Italiani dimenticati, le minoranze italiane in Europa”. Una ristampa è prevista, ma non è sicuro. Proprio in questo libro sono segnalate le vicissitudini di questa minoranze e la loro storia finita tragicamente.
Le ricordiamo anche noi.


ODESSA
Un nobile napoletano di origine spagnolo Giuseppe De Ribas (1749-1800), fondò, verso la fine del Settecento, la città di Odessa, in Ucraina, organizzandone il porto, la flotta e il commercio, rendendola una città importante per il Mar Nero e il Mediterraneo.

Ritratto di Giuseppe de Ribas. Collezione del Museo dell’Ermitage, S. Pietroburgo

Figlio dell’irlandese Margaret Plunkett e di Miguel de Ribas y Buyens, un esponente della piccola nobiltà spagnola arrivato a Napoli al seguito di Carlo di Borbone, era nato all’ombra del Vesuvio nel 1749, dove, all’età di 16 anni, era entrato nella Guardia napoletana con il grado di tenente. Nel 1769, a Livorno, incontrò colui che ne avrebbe cambiato la vita: il comandante in capo della flotta russa conte Aleksei Orlov, fratello di uno dei tanti amanti di Caterina II, Grigorij Grigorevic Orlov.

Caterina la Grande, imperatrice della Russia (1729-1795).

Arrivato nel Mediterraneo con la flotta del Baltico per ingaggiare battaglia con le marina ottomana in occasione della prima guerra russo-turca, Orlov rimase affascinato dal giovane ufficiale napoletano capace di esprimersi correttamente in sei lingue diverse. Decise quindi d’ingaggiarlo come interprete, proponendogli di trasferirsi a San Pietroburgo. L’avventuroso de Ribas non ci pensò un attimo e pochi mesi dopo, nel luglio del 1770, sotto le insegne della nuova bandiera, prese parte alla vittoriosa battaglia di Chesme contro la flotta turca, la prima combattuta da navi russe nel Mediterraneo. Arrivato a San Pietroburgo, assunse il nome di Osip Michajlovic Deribas ed entrò nella scuola militare del ‘Primo corpo dei cadetti’. Nella capitale, dove più tardi sarà raggiunto dai fratelli – Emanuele, Andrea e Felice – costruirà un’importante rete di relazioni, complice anche il matrimonio con la ciambellana di Caterina II, Anastasija Ivanovna Sokolova. Alle nozze, celebrate nel 1776 nella chiesa del palazzo imperiale di TsárskoyeSeló, alla periferia di San Pietroburgo, parteciperà anche la zarina che, pochi anni dopo, diventerà madrina delle due figlie della coppia. Promosso colonnello, nel 1783 entrò al servizio del nuovo favorito dell’imperatrice, Grigorij Aleksandrovic Potëmkin, che seguirà nei territori dell’Ucraina meridionale, da questi amministrati dopo le conquiste ottenute ai danni del sultano. Sulle sponde del mar Nero, de Ribas entrerà definitivamente nella storia, partecipando alle più importanti battaglie della Seconda guerra russo-turca (1787-1792).

Grigorij Aleksandrovic Potëmkin. Collezione dell’Ermitage ©.

Dopo aver preso parte allo scontro navale dell’estuario del Dnepr, all’assedio della fortezza di Ochakov, de Ribas conquisterà l’isola di Berezán e il villaggio di Khadjibei (abitato dai tatari) con la fortezza di Yeni Dunyia, dove nel 1794 fonderà, appunto, Odessa. Non solo, il suo intervento si rivelerà decisivo per espugnare l’agguerrita piazzaforte d’Izmail posta alla foce del Danubio. Sarà lui, infatti, a elaborare insieme al generale Suvorov, il piano d’attacco che, in poco più di dodici ore, farà cadere una delle città più fortificate d’Europa.

De Ribas ribattezzò il villaggio di Khadjibei “Odesso”, in omaggio alla vecchia colonia greca che si estendeva sulla costa. Luogo di incontro tra la civiltà orientale e quella occidentale, multiculturale per la sua stessa natura geografica, situata alla foce di grandi fiumi, tra cui il Danubio, divenne presto il cuore pulsante dell’impero meridionale della zarina Caterina, la quale ribattezzò il villaggio al femminile, Odessa.

Veduta di Odessa alla finedel Settecento, in un’antica stampa.


Ben presto ad Odessa si costituì una colonia italiana, che nel 1850 contava circa tremila abitanti, quasi tutti di origine meridionale. Rilevante fu il contributo che questa comunità diede alla fondazione, allo sviluppo e all’economia dell’impero russo.
 L’italiano rimase a lungo lingua ufficiale dell’attività economica della città. Cartelli stradali, passaporti, liste dei prezzi erano scritti in italiano, e la comunità italiana diede un grande contributo alla cultura della città alle porte del Mar Nero, soprattutto nell’ambito dell’architettura. Il napoletano Francesco Frapolli fu nominato architetto ufficiale della città nel 1804 e fu lui a progettare la monumentale Opera di Odessa e la famosa Chiesa della Trinità.

Teatro Nazionale di Odessa, progettato dall’architetto italiano Francesco Frapolli nel 1810.


La famosa canzone “O’ sole mio” fu scritta e composta ad Odessa da Giovanni Capurro e Eduardo Di Capua che in quel tempo si trovava nella città russa.(Non ucraina, notiamo che a quel tempo Odessa era considerata russa e la lingua ucraina era considerata un dialetto, di nessun uso ufficiale).
La musica si ispirò ad una bellissima alba sul Mar Nero e dedicata alla nobildonna Anna Maria Vignati Mazza. Il brano non ebbe immediato successo a Napoli, salvo poi diventare famosa sulle sponde del Mar Nero e da lì divenire canzone patrimonio della musica mondiale.
Inoltre, grandi attori teatrali e musicisti contribuirono alla formazione dell’Opera di Odessa, facendo della città la più europea e mediterranea dell’impero russo.
Nel passare del tempo, tuttavia, il peso della colonia italiana diminuì progressivamente; nella seconda metà dell’Ottocento la comunità italiana contava solo 286 unità, ma l’impronta italiana nella città è evidente tutt’oggi.
L’italiano Francesco Boffo (1790-1867) fu l’ architetto del comune di Odessa per oltre 40 anni, trasformando la città in un vero museo a cielo aperto dell’architettura neoclassica e neo rinascimentale italiana, rivaleggiando con San Pietroburgo. L’ opera più famosa è la scalinata Potëmkin (immortalata nel film “La corazzata Potëmkin”), oltre a circa 30 palazzi ed edifici pubblici.

La famosa scalinata di Potëmkin.


CRIMEA
Sulla storia della comunità italiana di Crimea esiste, disponibile su internet, un volume: “L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea”
Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed, 2009. Gli autori sono Giulia Giacchetti Boico*, i cui antenati facevano parte di questa comunità e Giulio Vignoli** .
Dal volume riportiamo una citazione:
“Dal 1830 fino alla fine del Secolo XIX un flusso migratorio italiano, composto soprattutto di Pugliesi, interessò la Crimea allora appartenente alla Russia zarista. Con l’avvento del comunismo il destino di questa comunità, alcune migliaia di persone, divenne problematico per poi precipitare verso un tragico destino”.


In particolare il libro rievoca la drammatica vicenda, per lo più ignota e comunque sempre ignorata da chi avrebbe dovuto e dovrebbe occuparsene, di questi Italiani, di questa vera e propria minoranza nazionale della Crimea, dalle persecuzioni nel periodo stalinista alla deportazione nel 1942 in Cazachistan, alla fame, agli stenti, alla morte di molti nelle steppe dell’Asia, per giungere fino ai nostri giorni. La pubblicazione, arricchita da importantissimi ed inediti documenti e testimonianze, vuole pubblicizzare i terribili eventi patiti dagli Italiani (uomini, donne, vecchi e bambini) e sensibilizzare l’opinione pubblica e la classe politica dell’Ucraina e dell’Italia alle difficili condizioni in cui tuttora vivono i sopravvissuti in Crimea e la diaspora negli Stati della ex Unione Sovietica. Ad essi deve essere resa giustizia”.

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*Giulia Giacchetti Boico, nipote di deportati, da anni raccoglie materiale sulla deportazione degli Italiani di Crimea. E’ la memoria storica della Comunità degli Italiani di Kerc (Crimea). Può essere definita il genius loci.
**Giulio Vignoli è professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova. Da tempo si occupa delle minoranze italiane che vivono nell’Europa Orientale e della loro tutela. In argomento ha pubblicato vari libri, tale “Gli italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa. Saggi e interventi” (Giuffrè 2000) e “I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica italiana” (Giuffrè 1995).

Italiani a Malindi in Kenya, luci ed ombre

di Anna Bono

Dal VII secolo, sulle coste dell’Africa orientale, è fiorita la società urbana e mercantile Swahili, nata dall’incontro tra le popolazioni autoctone bantu e i colonizzatori arabo-islamici che stavano conquistando il continente. Su quelle coste, in Kenya, una antica città, Malindi, è stata radicalmente e irreversibilmente  trasformata dagli italiani: non è successo all’epoca della colonizzazione europea, bensì circa 20 anni dopo che il paese era diventato indipendente; e non si è trattato, come altrove, di persone che agivano per conto di imprese nazionali o multinazionali o su mandato del governo italiano.   

Malindi, fino agli anni 70 del secolo scorso, era una piccola città portuale di alcune migliaia di abitanti. Come all’epoca in cui, all’inizio del XIII secolo, i coloni arabi ne fecero un centro commerciale fiorente, consisteva in un quartiere arabo costruito in riva all’oceano Indiano, fatto di case in pietra di corallo, Shela, alle spalle del quale c’erano le capanne e le baracche dei Mijikenda, le tribù dell’immediato entroterra. A Malindi abitavano anche degli asiatici, discendenti delle famiglie portate in Kenya dagli inglesi a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Non lontano da Shela, infine, sorgevano alcuni alberghi frequentati da europei, prevalentemente inglesi e tedeschi, e i cottage degli inglesi residenti sugli altipiani che, a Malindi e in altre località della costa, andavano in vacanza o si trasferivano dopo la pensione.  

Alla fine degli anni 70, però, a Malindi sono arrivati degli italiani – decine e presto centinaia di persone, alla spicciolata, partite dall’Italia per motivi e con i progetti più diversi – che in pochi anni ne hanno fatto un centro turistico in rapidissima espansione, gestendo quasi del tutto, direttamente o indirettamente, le attività del settore e il suo indotto. All’inizio degli anni 80 c’erano già una pizzeria, una gelateria, un ristorante che serviva pasta importata dall’Italia, tutti locali frequentati da italiani residenti e in vacanza. 

L’impronta italiana più evidente è quella fin da allora impressa all’ambiente urbano. Tre italiani, seguiti da altri che li hanno imitati anche se non sempre con risultati altrettanto buoni, hanno incominciato ad acquistare terreni, a Malindi e nei villaggi costieri vicini, e a costruire ville, alberghi, complessi residenziali destinati ai turisti italiani che affluivano sempre più numerosi. Ispirandosi agli ambienti e agli scenari del film “La mia Africa”, uscito nel 1985, e reinterpretando la struttura e i decori delle case swahili di Shela, i metodi di costruzione tradizionali, i materiali edilizi locali – blocchi di corallo bianco per i muri, pietra di Galana per i pavimenti, makuti (le tegole di foglie di palma che ricoprono le capanne mijikenda) per i tetti, magogo (i pali e le travi di legno usati per sostenere soffitti e pareti) – hanno creato uno stile architettonico italiano, originale e splendido: hanno costellato Malindi di grandi, candide costruzioni con altissimi, spettacolari tetti di makuti, arredi etnici di produzione artigianale e ampie verande sorrette da colonne ricavate da tronchi d’albero, immersi in giardini incantevoli delimitati da siepi di bouganvilles di tutti i colori. Quasi subito sono stati costruiti anche dei quartieri nello stesso stile, ma con case più piccole, meno scenografiche e quindi meno costose, sempre però circondate dal verde.  

Paesaggio del film “La mia Africa”, foto © Stardust.it

Solo Shela non è cambiata nel tempo. Invece, tutto attorno, oltre alle centinaia di case e alle decine di alberghi e locali italiani, si sono moltiplicate attività commerciali, artigianali, agricole. Oggi la città ha più di centomila abitanti africani. 

Si dice, a ragione, che a “inventare” Malindi, a trasformarla in una “perla dell’oceano Indiano”, capace di evocare le atmosfere coloniali della “Happy Valley”, la regione sugli altipiani dove vivevano i bianchi all’epoca di Karen Blixen, è stato Armando Tanzini, un inquieto, geniale artista e architetto livornese stabilitosi in Kenya negli anni 70. Suoi capolavori sono la casa in cui vive, a pochi metri dal Vasco da Gama Pillar (il navigatore portoghese Vasco da Gama salpò nel 1498 da Malindi alla volta dell’India, sfruttando i venti Monsoni) e il White Elephant Sea & Art Lodge, uno dei resort più belli della costa kenyana, entrambi presi a modello, copiati anche per la costruzione e l’arredo delle case e degli hotel più modesti. 

Cartina antica: MALINDI AND VASCO DE GAMA’S PILLAR. KENYA. MAASAI LAND, 1885. 

Armando Tanzini definiva Malindi “un cavallo di razza” contro chi secondo lui la trattava come un “animale da soma”. Se infatti una parte degli italiani hanno puntato come lui su ville e hotel di lusso e atmosfera – Kilili Baharini, Luna House, Palm Tree Club, Leopard Point Resort, Simba wa kale… – destinati a una clientela medio alta e alta, molti altri invece si sono rivolti al turismo di massa, a clienti con poche aspettative, attratti dai prezzi economici di appartamenti e villette a schiera. La città ne ha sofferto: oltre i confini dei resort e delle ville nascosti e protetti da parchi e giardini, chiasso, polvere, sporco, confusione, troppe automobili, karaoke e discoteche di notte, a tutto volume sulle spiagge, tanti beach boys e prostitute confluiti dal resto del paese.

Se Armando Tanzini ha inventato Malindi, a rilanciarla ciononostante, all’inizio di questo secolo, è stato un altro italiano, Fabio Briatore, che prima ha costruito per sé una villa nel “tipico stile locale”, trasformata nel 2013 in resort a cinque stelle, e in seguito ha costruito un secondo resort per VIP, The Billionaire. In entrambi ha ospitato personaggi dello spettacolo, dello sport e della politica come Silvio Berlusconi, Naomi Campbell, Simona Ventura, Fernando Alonso. Sul suo esempio, in quel periodo degli italiani celebri hanno anch’essi comprato casa a Malindi. 

Billionaire Resort, foto © Billionaire Travel

Ma, anche se ormai tutti parlavano italiano, si vedevano i canali televisivi italiani e nei supermercati si trovavano Nutella, pelati e parmigiano, i tempi d’oro erano finiti. Un susseguirsi di errori compiuti dagli operatori turistici, l’aumento esponenziale della delinquenza comune e altri fattori hanno ridotto i flussi turistici, molti anni prima che il Covid li interrompesse del tutto per quasi due anni. Nel 2017, in una Malindi da troppo tempo semi vuota, persino Briatore ha deciso di mettere in vendita i suoi resort. Il calo delle presenze ha colpito duramente hotel, ristoranti, residence, attività commerciali. Splendidi gusci vuoti, le ville e gli hotel cinque stelle di cui, nonostante gli scarsi introiti, i proprietari riescono a prendersi cura; in progressivo degrado, le strutture semi o del tutto abbandonate da chi non è in grado di sostenere le spese di manutenzione: così si presenta Malindi. Centinaia di italiani tuttavia continuano a viverci, sperando in tempi migliori: chi per scelta, potendo comunque permettersi lì un invidiabile tenore di vita, chi per necessità, perché altrimenti non saprebbe dove andare; tutti, forse, in qualche misura, riluttanti a lasciare la “Happy Valley” che hanno contribuito a creare, a immaginare una vita lontano dall’Africa.       

Il Comites a Malindi, al servizio degli italiani che ancora ci vivono. Foto © MalindiKenia.net

Breve biografia dell’Autrice di questo articolo

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa Swahili del Kenya. 

Dal 2004 al 2009 ha collaborato con l’Istituto superiore di studi sulla donna dell’Università Pontificia Regina Apostolorum. 

Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. 

Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica. 

Su Africa, relazioni internazionali, problemi di sviluppo, cooperazione internazionale, emigrazione ha scritto oltre 1.600 articoli, saggi e libri scientifici e divulgativi.