Autore: Mauro
Il libro “Monaco, il Principato” presentato dalla Città di Ventimiglia
Tra il Principato di Monaco e la città di Ventimiglia sono da sempre esistiti dei legami forti.
Proponiamo qui di seguito un testo di Filippo Rostan, che nella “Storia della Contea di Ventimiglia” (Istituto Internazionale di Studi Liguri – Bordighera, 1971) spiega l’importanza di questa relazione, vecchia da secoli.
I Grimaldi a Ventimiglia
Negli anni successivi alla occupazione genovese di Ventimiglia, i cittadini che avrebbero gradito il proseguimento dello stato di Libero Comune Marinaro, pur appartenendo alla fazione ghibellina, si affidarono alla guelfa famiglia Grimaldi, in amicizia con il Governatore di Provenza, per contrastare il più possibile l’ignobile attività interna dei De Giudici e del loro losco Albergo. Le sorti dei Grimaldi nel possesso della Rocca di Monaco, divennero essenziali per il prosieguo di tale politica, cosicché quando tra alti e bassi l’abilità dei Grimaldi riuscirà a far insediare saldamente la famiglia sulla Rocca del Principato, molti ventimigliesi ne furono soddisfatti. Non avrebbero ritrovata la loro libertà diretta, ma potevano aggregarsi a quella “libertà” monegasca, che ancora oggi compiace molti Intemeli.
Carlo Grimaldi, Vicario angioino
Nel 1331, il Governatore della Provenza, Re Roberto d’Angiò indusse anche le fazioni della città di Genova a riconciliarsi, il che fecero in sua presenza, in Napoli, il 3 settembre.
Poco dopo, a Carlo Grimaldi, fatto importantissimo e gravido di conseguenze, vengono concessi Monaco e Roccabruna, che terrà in nome e per conto della Repubblica. Dobbiamo presumere che tale concessione gli venisse fatta sotto la pressione del Re, il quale, in procinto di lasciare il governatorato della Repubblica e prevedendo un ritorno ghibellino, intendeva assicurarsi i vantaggi di una situazione preponderante sulla frontiera.
Già con la pace di Pigna la sorte dei guelfi s’era rialzata: ormai con queste due nuove acquisizioni essi hanno la preponderanza assoluta nella Contea, che da Molinetto a Saorgio e Bordighera, più Dolceacqua e Abeglio, tutto è in mano loro o del Re. Stante le loro aspirazioni separatiste la situazione è tale che la più piccola mossa sbagliata da parte di Genova può provocare l’irreparabile. Irreparabile che, grazie allo stato di perpetua violenza in cui la città viveva, non tarderà a prodursi.
Nel febbraio del 1335, i ghibellini genovesi ritornano al potere. Essi vogliono subito riprendere in mano il controllo della frontiera e si portano con una flotta all’attacco di Ventimiglia e di Monaco. Riconquistano Ventimiglia, ma Carlo Grimaldi li respinge da Monaco, rientra a sua volta in Ventimiglia e, con i guelfi locali, decide senz’altro il grande passo: il passaggio alla Provenza. I deputati ventimigliesi si recano tosto dal Re per la messa a punto e la consacrazione degli accordi e, dopo soltanto tre mesi dal trionfo ghibellino in Genova, il 25 maggio 1335, nella Cattedrale di Ventimiglia, presente il Siniscalco di Provenza, Sanguinetto di Haumont, Carlo Grimaldi, Governatore della Città e Agamellino Grimaldi, Podestà, vengono lette al popolo radunato le condizioni dell’annessione. Con esse il Re crea la Vicaria di Ventimiglia su quella che era stata la Contea di Ventimiglia nella sua massima espansione, escluso San Remo.
I cittadini presenti accettano e la bandiera provenzale viene issata sulla città. Tre giorni dopo i capi famiglia di parte guelfa, radunati nel forte della Rocca, giurano fedeltà al Re.
Le teste di ponte della Repubblica e dei ghibellini dell’alta Italia, contenenti la pressione della guelfa Provenza, sono crollate quasi di colpo. I Lascaris, rimasti isolati e a causa di una impossibile reazione genovese, forse modificarono i termini del loro omaggio, ma i Doria non si sottomisero, e disertarono le loro terre.
L’avvenimento coincideva col ristabilirsi della situazione provenzale in Piemonte dove, il 10 settembre seguente, intervenne un trattato fra il Re e il Conte di Savoia, in virtù del quale questi riconosceva in feudo a Roberto la contesa Possano e gli rimetteva Savigliano.
Con la «Vicaria della Contea di Ventimiglia e Val Lantosca» culmina e ha termine il secondo periodo dell’espansione provenzale.
Nella continuità di queste relazioni di amicizia e cooperazione tra Ventimiglia e il Principato di Monaco, sabato 4 Settembre alle ore 17,50 sarò presente a Ventimiglia, nel Chiostro di Sant’Agostino (Sala Polivalente) su invito della città, per presentare il libro che spiega tutto su Monaco: la storia, l’arte e l’architettura, le possibilità di vivere e di lavorare e tutto ciò che è da sapere.
La Libreria Emporium di Ventimiglia gestirà uno stand dove sarà in vendita il libro.
Vi aspetto numerosi.
L’ italicità si trasmette anche in cucina
Su il quotidiano Figaro, di sabato/domenica 31 luglio-2 agosto 2021, abbiamo letto :
“Le tiramisù, la recette gagnante de Marlène Schiappa”.
Madame Schiappa non è chef (cheffe, come dicono in Francia, femminizzando ridicolmente le parole, come noi in Italia quand diciamo “sindaca”) de cuisine, ma giovane ministro del governo Castex.
Nata a Parigi il 18 novembre 1982, è scrittrice, militante femminista e politica francese. Dal luglio 2020 è ministro delegato responsabile della cittadinanza nel governo del primo ministro Jean Castex. Nel governo precedente aveva ricoperto il ruolo di Segretario di Stato per l’uguaglianza di genere. In Francia esiste questa figura ministeriale, in francese si dice: secrétaire d’ Etat chargé de l’ Egalité entre les hommes et les femmes et de la lutte contre les discriminations.
Scrittrice e animatrice di un blog di grande successo “Maman travaille”, già militante del Partito Socialista, ha lasciato a suo tempo questo partito per raggiungere Emanuel Macron.
Si tratta di una “marcheuse” della prima ora, impegnata con Macron per portare avanti le sue idee. Marcheuses si chiamano le militanti di sesso femminile impegnate nel partito di Macron, LREM, la République en Marche.
Non vogliamo tuttavia citare Marlene Schiappa come politico: in questo campo le sue fortune sono certamente in pericolo, in quanto strettamente legata al destino declinante del Presidente della Repubblica.
L’articolo di Figaro infatti ci fa conoscere una donna impegnata in famiglia, che ama marito e figlie; come una mamma italiana si preoccupa di cucinare cose buone per la famiglia.
Infatti le sue origini sono italiche, padre corso e mamma italiana, marito di Marsiglia.
Marlène dà una grande importanza alla cucina, quella tradizionale; disdegna la nouvelle cuisine e quella molecolare. Dice testualmente: “la cuisine chichi, ça n’est pas trop mon truc”.
Cucinare è anche condividere, passare tempo insieme ed insieme cucinare facendosi aiutare da figlie e marito. Questi sono i momenti felici di una vita in famiglia.
I piatti sono quindi italiani, italianizzanti e mediterranei. La sua specialità è il tiramisù, che ha insegnato alle sue figlie come fare. Sul giornale dà ai lettori di Figaro la ricetta originale, aggiungendo che è un dessert che tiene alto il morale.
Infatti letteralmente in francese si traduce in “Redonne-moi des forces” .
La comunità globale degli italici si annuncia al mondo. Appuntamento da non mancare
Il 22 settembre prossimo venturo alle ore 11, con un evento della durata di circa un’ora, presso la sede dell’Associazione Stampa Estera a Roma, prenderà il via l’“Italica global community,”
Il concetto di “Italicità” è stato affermato per la prima volta da Piero Bassetti nel libro “Svegliamoci Italici! Manifesto per un futuro glocal” (2015), in cui l’autore illustra le potenzialità offerte dall’appartenenza italica e la necessità di stimolare, nei 250 milioni di italici sparsi per il mondo, una presa di coscienza del loro essere parte di una grande ed autorevole “Comunità globale”.
Nel Principato di Monaco, si è parlato di Italici nel corso di un incontro promosso da Mauro Marabini che aveva per l’occasione invitato Piero Bassetti, a presentare il libro.
L’incontro ha avuto luogo nell’espace culturel “Scripta Manent” alla presenza di numerosi italiani di Monaco, dell’ambasciatore e di tutti i notabili della nostra comunità. C’erano anche tanti non italiani, ma italofoni, che quella sera hanno appreso che erano italici.
Gli italici sono ovviamente gli italiani in Italia e all’estero, i ticinesi, i sammarinesi, i dalmati, i discendenti degli italiani, ma soprattutto i milioni di italofoni che senza avere una goccia di sangue italiano, hanno abbracciato valori, stili di vita e modelli di quell’Italian way of life diffuso in tutto il mondo, ibridandoli con le culture dei Paesi in cui vivono.
Gli italici possono diventare una Comunità protagonista della storia globale, unita in una appartenenza fondata oggi non più esclusivamente su legami di discendenza, ma sul portato universale di storia e tradizioni, gusto per la bellezza e modo di vivere, che fanno dell’Italia e della lingua italiana un essenziale punto di riferimento culturale nel mondo, senza dimenticare che l’appartenenza italica, l’avere l’Italia nel cuore, è anche una grande risorsa di business e di mercato.
La presentazione dell’“Italica global community” è promossa dall’Associazione “Svegliamoci Italici”, nata nel 2019 e presieduta da Piero Bassetti.
L’evento del 22 settembre alla Stampa Estera di Roma sarà l’occasione per illustrare pubblicamente il pensiero “Italico” e per declinare le azioni volte alla concreta nascita e visibilità della Comunità Italica. L’incontro è disegnato come un format televisivo globale e digitale.
Ai tradizionali interventi in presenza si alterneranno proiezioni di filmati tratti da recenti trasmissioni di RAI Italia e dirette esterne da varie parti del mondo che vedranno come protagonisti esponenti italici della cultura, dell’imprenditoria, del giornalismo e dell’associazionismo giovanile.
L’evento alla Stampa Estera di Roma sarà trasmesso in diretta tramite la pagina Facebook https://www.facebook.com/ItalicaGlobalCommunity e sarà poi rilanciato nelle trasmissioni RAI dedicate all’estero, alla cronaca, alla politica e alla cultura; successivamente con la stessa pagina Facebook, oltre che con comunicati stampa e interviste, sarà data periodica informazione sulla preparazione dell’evento e poi del suo svolgimento.
Saranno invitati a partecipare in presenza, oppure a collegarsi con varie modalità, giornalisti corrispondenti stranieri e giornalisti italiani, personalità italiche “testimonial” nei loro ambiti di attività e significative rappresentanze del mondo universitario e giovanile, con un programma di lavori, la cui scaletta contiamo di poter rendere nota entro il 7 settembre.
Queste informazioni provengono dalla lettera che Umberto Laurenti, vicepresidente della associazione, ha inviato ai soci promotori il 26 luglio 2021.
Altre informazioni su www.italicanet.com
In questo blog vedi: Italia fuori d’Italia
La Chiesa cattolica a Monaco
Riflessioni a seguito della visita del Cardinal Parolin. Ma il Papa è mai stato a Monaco? Sì e no. Vediamo quando.
La visita del cardinal Parolin, 18 luglio 2021 ci ha ricordato come il Principato sia storicamente legato alla Chiesa cattolica.
I rapporti sono stati regolati con trattati e quello fra Monaco e Vaticano, firmata il 25 luglio 1981, aveva modificato la Bolla “Quemadmodum sollicitus Pastor” del 15 marzo 1886.
Nel testo si stabilisce che i Principi di Monaco hanno rinunciato al loro diritto di nominare il vescovo di Monaco, lasciando alla Santa Sede la libertà di farlo in sua vece.
Pertanto la Santa Sede, rispettando questi accordi, ha l’obbligo di comunicare il nome della persona scelta a S.A.S. il Principe di Monaco per sapere se ci sono possibili contestazioni di natura civile o politica riguardanti la suddetta persona.
Da parte sua, la Santa Sede si era impegnata ad elevare la sede di Monaco alla dignità di Arcidiocesi.
Il Segretario di Stato sua Eminenza Piero Parolin è venuto di persona a celebrare questo evento.
La Segreteria di Stato è il primo e più importante dicastero (ministero) della Curia romana (organo di Governo della Chiesa cattolica). Il Cardinale Segretario di Stato è quindi il primo collaboratore del Santo Padre, in un certo senso il suo Primo Ministro. È la massima autorità del Vaticano, dopo il Papa.
Ha avuto così modo di incontrare il nuovo arcivescovo di Monaco, Monsignor Dominique-Marie David.
Nato il 21 settembre 1963 in Francia nella diocesi di Angers, Monsignor David ha vissuto negli anni 2016/2019 a Roma, come rettore della chiesa di Santa Trinità dei Monti. A Monaco succede a Monsignor Bernard Barsi che ha lasciato la funzione per raggiunti limiti di età.
Dobbiamo pertanto aggiungere che, pur avendo il Principato una immagine mondana e modaiola, abbiamo visto che sotto luci e lustrini c’è un popolo di gente che lavora con lena e che fa impresa. Non solo lavora, ma anche, fatte le debite proporzioni, devota.
A Monaco la gente (di religione cattolica al 90%) va a Messa più che altrove, il 17% contro il 3% della Francia. In Italia secondo l’ISTAT sono il 28,8 % (dati 2014 citati da Sandro Magister).
Ai tempi di Benedetto XVI l’affluenza era pari al 30%.
A Monaco la Chiesa è importante; il sovrano governa “par la grâce de Dieu,” la il Cattolicesimo è religione di Stato (quest’ultimo si accolla molte spese). Il Principe invia a Roma un suo ambasciatore (che non è lo stesso accreditato per la Repubblica Italiana) presso la Santa Sede.
Storicamente il Principato è sempre stato “guelfo”: Francesco Malizia, guelfo di Genova, scappava dai Ghibellini (Anno Domini 1297). Già esisteva comunque dal 1215 la città fortificata di Monaco ed una bolla del Papa Innocenzo IV sanciva la nascita di una parrocchia indipendente da quella di La Turbie.
La parrocchia veniva dedicata a san Nicola, santo protettore dei marinai. La bolla data dal 1247, ma la chiesa fu ultimata solo nel 1321. Si trovava dove c’è ora la cattedrale. La parrocchia di Monaco era sotto la giurisdizione del vescovo di Nizza, mentre le parrocchie collocate nei territori di Mentone e Roccabruna dipendevano dal vescovo di Ventimiglia: situazione complessa che si sanò nel 1868, all’epoca in cui il Principato si era ridotto al solo comune di Monaco.
Stato piccolo, ma fieramente indipendente e in tale data si costituì la parrocchia autonoma separata da Nizza. Nel 1875 cominciò la costruzione dell’attuale cattedrale, che fu consacrata nel 1911, là dove c’era San Nicola.
In data 30 aprile 1868 infatti, il Papa Pio IX aveva fatto di Monaco “Abbaye nullius” ed in seguito nel 1887, grazie al papa Leone XIII veniva istituita la Diocesi e il suo capo diveniva vescovo.
Un secolo dopo, luglio 1981, papa Giovanni Paolo II faceva di Monaco un arcivescovado.
L’arcivescovo di Monaco non dipende della conferenza Episcopale di Francia , ma direttamente dalla Santa Sede. In quella occasione è stato pure siglato un accordo fra lo Stato Monegasco e la Santa Sede. Quindi a Monaco c’è un arcivescovo ed un vicario oltre ad una ventina di sacerdoti ed alcuni diaconi. Tutti sono molto impegnati in una intensa attività pastorale.
Ci sono molte associazioni cattoliche di vario tipo e un periodico, “Eglise à Monaco”, che prima usciva in cartaceo e che adesso è pubblicato solo in formato digitale (www.diocese.mc).
Un vasto programma di digitalizzazione della comunicazione della Chiesa è in corso.
Le parrocchie di Monaco
1) La cattedrale, a Monaco-Ville. Maestosa, segno identitario della Chiese e del popolo Monegasco.
2) Santa Devota; si trova in Piazza Santa Devota, in un vallone a ridosso del porto e la Condamine, dove si celebra ogni seconda domenica del mese la Messa in italiano, cosi come nelle grandi feste religiose. Nelle occasioni solenni in pompa magna si esibisce un tenore italiano.
3) San Carlo (Saint Charles) in avenue Saint Charles, nel quartiere dei Moulins, al confine con Beausoleil, in posizione elevata: è la parrocchia di Monte-Carlo.
4) Saint-Martin, al numero 20 di avenue Crovetto Fréres, nella zona conosciuta come la Colle alla Condamine.
5) Sacre Coeur Sacro, in rue de la Turbie è la chiesa dei Moneghetti. Di recente restaurata è un capolavoro architettonico nascosto.
6) Saint Nicolas è la parrocchia di Fontvieille in Place de Campanin.
7) Saint-Esprit è una parrocchia “fuori mura”, nel senso che comprende i comuni di Beausoleil, Cap d’Ail, la Turbie e Peille village.
In virtù di un accordo fra l’Arcivescovo di Monaco e il Vescovo di Nizza, stipulato nel Settembre 2001 queste località sono affidate alla pastorale di Monaco.
Negli ultimi anni la Chiesa e i fedeli sono stati impegnati nella ricerca di fondi e mezzi per la costruzione di una nuova casa diocesana (La Maison Diocésaine). L’obiettivo è stato raggiunto: è un luogo dove saranno concentrati tutti i servizi necessari di una diocesi piena di attività; vi sarà una cappella, uffici, ora sparsi un po’ ovunque, sale riunioni e conferenze, una mediateca, e tante altre cose. Ci sono voluti 15.000.000 di Euro.
Uno sguardo al passato, che merita di essere ricordato
Siamo nell’anno 1814, il Papa è prigioniero di Napoleone a Parigi.
Anche se il cattolicesimo era stato restaurato nell’Impero Francese, Napoleone vedeva in esso uno strumento per allargare il consenso dei popoli al nuovo regime. Il Papa aveva difeso con coraggio le sue ultime prerogative e non accettò mai che il concordato firmato nel 1801 fosse ulteriormente modificato a danno della Chiesa. Il conflitto rimase in atto, ma dopo la sconfitta di Lipsia (ottobre 1813) Napoleone lasciò libero il Papa di tornarsene a Roma.
Pio VII intraprese così un lungo viaggio di ritorno trionfale che fu un segno evidente di come dopo tanti anni di guerre e rivoluzioni l’attaccamento al cattolicesimo era rimasto intatto e generalizzato. Arrivò a Roma il 24 marzo 1814 acclamato e portato in trionfo in San Pietro.
Nel viaggio da Parigi a Roma era stata prevista una tappa a Savona. L’11 Febbraio 1814, era di passaggio a La Turbie, comune contiguo a Monaco. Le cronache riportano che tutto il popolo monegasco con i suoi preti si recò compatto sulla strada dove doveva passare il Papa. I fedeli entusiasti avevano fatto erigere, in questa occasione un arco di trionfo per potere ricevere la benedizione del Pontefice, acclamarlo e manifestare la Fede.
Il Papa non andò a Monaco, gli passò vicino, ma fu il popolo monegasco ad andare dal Papa.
Il Papa Pio VII era Barnabà Niccolò Maria Luigi Chiaramonti, vescovo di Imola, nato a Cesena il 14 agosto 1742, figlio del Conte Scipione e di Giovanna Ghini, entrambi discendenti da famiglie di antica nobiltà romagnola.
Era stato eletto Papa il 14 marzo 1800 nel corso di un lungo e controverso Conclave che si era tenuto a Venezia, non a Roma, per motivi di sicurezza. Vi erano state tante pressioni sia da parte dei Francesi che dagli Austriaci, in guerra fra di loro e tutti vogliosi di tirare il Papa dalla loro parte.
Erano tempi veramente difficili ed ingrati per il Papa e la Chiesa, ma Pio VII seppe, con dignità e coraggio, tenere botta ed alla fine dell’era napoleonica fece riacquistare alla Chiesa il prestigio, il ruolo e perfino i territori che erano stati messi in discussione nei decenni precedenti.
Cercò per quanto possibile di adattare il papato al mondo contemporaneo e quando morì il 20 luglio 1823, per complicazioni a seguito della rottura di un femore, lascio un vuoto che non sarebbe stato facilmente colmato.
Venendo a tempi più recenti, nel 1947 la cronache riportano che quando era nunzio a Parigi per una notte fu ospitato dal principe nel suo palazzo Angelo Giuseppe Roncalli: sarebbe divenuto Papa Giovanni XXIII.
(Dal libro ” Monaco, il Principato par la grâce de Dieu” di Mauro Marabini, Liamar Multimedia 2020).
Mentone, ai confini del Principato, antico dominio dei Grimaldi
Destinazione turistica eccezionale, non solo spiagge e sole, ma un paesaggio meraviglioso laddove la montagna si getta nel mare. Qui a Mentone si incrociano l’arte barocca e la Belle Epoque e tanta storia legata a quella del Principato di Monaco. Acquisita nel 1346 da Carlo Grimaldi rimase per cinque secoli sotto la signoria dei principi monegaschi, e ne condivise i destini.
Mentone e Monaco alla Battaglia di Lepanto
Quando Pio V fece il primo grande “fund raising” che un Pontefice abbia mai fatto, per raccogliere i fondi necessari alla costituzione della Lega cristiana, tutti i paesi interpellati risposero positivamente (ad eccezione della Francia). Fra questi Paesi c’era anche il Principato di Monaco, allora (nel 1571) molto più ampio territorialmente di oggi, perché conteneva anche Roccabruna e Mentone.
E così, dal Porto di Mentone partirono quattro galee monegasche, di cui due erano capitanate da mentonesi: Lorenzo Rossi su la Patrona, che sulle fiancate portava le insegne dei Grimaldi, e Jaumono Laurenti su la Capitana. Onorato Primo, signore di Monaco non partecipò alla battaglia, ma le quattro imbarcazioni si fecero onore. Purtroppo otto dei 14 mentonesi imbarcati in questa mitica battaglia persero la vita. Il loro sacrificio fu celebrato dal principe Alberto II che inaugurò una stele in loro memoria, che è visibile nella Piazzetta Fontana. Vi parteciparono il Sindaco, Vi sono riportati i nomi di questi eroi: Menone Imberto, Bertomairo Arguina, Agostino Bosan, Bedin Gazano, Francè Bisado, Gio. Antonio Pachiero, il figlio di Poca Barba, Antonio Plesso.
Diversi oggetti furono portati in città dalla Battaglia, fra i quali quattro stendardi, oggi custoditi nella Basilica di San Michele.
Tra coloro che ritornarono dalla Battaglia, citiamo Barthélémy Pretti, che portò in città diverse armi, strappate ai nemici ottomani. Possiamo vedere ancora oggi una lancia, esposta alla Basilica di San Michele: una sua donazione alla chiesa, attualmente utilizzata come supporto alla croce processionale della parrocchia.
Le cose cambiarono nel 1848. Il destino esitante della città, fra Monaco, Italia, Francia.
In quella data si proclamò “città libera”, con la vicina Roccabruna, ponendosi sotto la protezione del re di Sardegna/Piemonte. Allora Monaco era uno dei tanti stati italiani.
L’Italia era percorsa da fermenti rivoluzionari, era in corso il Risorgimento, I mentonesi pensavano e speravano di diventare italiani. La città aveva appartenuto quasi ininterrottamente, come abbiamo detto, al Principato di Monaco, con la sola eccezione del periodo della Rivoluzione francese, dove pure il principato era sparito dalla carta geografica cosicché si può dire che Mentone non ha mai fatto parte della Contea di Nizza.
Fu unita alla Francia durante la Rivoluzione francese ed il Primo Impero e fece parte del dipartimento delle Alpi Marittime, che includeva, oltre Monaco, Mentone e Sanremo.
Il principato di Monaco fu ricostituito nella sua integrità nel 1814, alla caduta di Napoleone, ma passò nel 1815 sotto il protettorato dei re di Sardegna. Nel 1817 i legami fra i due stati furono rafforzati col trattato di Stupinigi.
Nel 1848, che fu l’anno delle rivoluzioni in Europa, sia Mentone che Roccabruna fecero secessione dal Principato di Monaco e proclamarono la loro indipendenza come città libere.
Il mentonasco Carlo Trenca assunse la presidenza del governo provvisorio e secessionista.
La separazione aveva origine dal malessere che le due città, Mentone e Roccabruna, provavano sotto il regime dei Grimaldi, i quali imponevano una pesante tassazione alle già scarse attività economiche del principato.
La conseguenza fu che Mentone e Roccabruna si costituirono allora, per reazione, in Città libere, domandarono la protezione del Regno di Sardegna e furono amministrate di fatto da Casa Savoia.
A questi fatti si erano aggiunti i fermenti liberali del Risorgimento italiano, che imperversavano in Piemonte ed avevano contagiato i riluttanti sudditi del Principato.
La bandiera adottata, sul modello delle repubbliche rivoluzionarie italiane, fu un tricolore verde-bianco-rosso, con al centro un emblema costituito da due mani che si stringono, simbolo dell’unione tra le due città. Successivamente le due “Città libere” chiesero l’annessione al Regno di Sardegna, ma incontrarono difficoltà da parte del Parlamento subalpino, in particolare del Senato, che rinviò nel tempo la sua decisione, mentre la Camera diede il suo consenso.
Tuttavia, nel 1861, in seguito agli Accordi di Plombières e soprattutto all’alleanza sardo-francese del 1859, le due città libere di fatto incorporate nella contea di Nizza divennero francesi, un anno dopo l’unione della contea di Nizza alla Francia. Si tenne infatti un plebiscito nell’anno 1860, con cui Mentone si pronunciò massicciamente in favore dell’unione alla Francia, plebiscito che venne pilotato sia dai francesi, che dai Savoia; esso segnò così la cessione definitiva, come dal precedente accordo fra l’imperatore Napoleone III e re Vittorio Emanuele I, delle due città alla Francia. L’imperatore francese versò inoltre la somma di quattro milioni di franchi in oro al principe Carlo III di Monaco come indennizzo per il pregiudizio territoriale causato al Principato dalla perdita delle due città rivierasche.
Così cambiò il destino di Mentone
Dal 1861 fino al 1914, il piccolo centro al confine con l’Italia, conosciuto per i suoi limoni, si trasformò in una grande destinazione turistica residenziale.
Il luogo dove gran parte dell’aristocrazie e della borghesia europea trascorreva l’inverno, lontano dai freddi del nord.
Al centro medievale, poi barocco, si aggiunse la nuova città moderna, con nuovi maestosi edifici ispirati allo stile della Belle Epoque. Questi edifici erano alberghi lussuosi che costellano le colline e i giardini . A cavallo del secolo il turismo divenne anche estivo; Mentone rivaleggiava come “glamour” con Monte-Carlo, Nizza, Cannes, San Remo.
Tutto fini all’inizio della prima guerra mondiale, il flusso turistico di alta gamma si esaurì e i lussuosi alberghi furono trasformati in ospedali di guerra per fare spazio alle cure e al ricovero di feriti che provenivano numerosi dal fronte.
Alla fine della guerra, le cose non tornarono come prima. Gli alberghi devastati non ritornarono ad essere alberghi, ma furono trasformati in condominii e lo sono tuttora.
Tra i pochi ritornati ad essere alberghi ci fu il Grand Hotel des Ambassadeurs. Parleremo di questa struttura più avanti.
Il turismo riprese ma non fu quello di prima. Da elitario divenne popolare.
La seconda guerra mondiale
Durante la seconda guerra mondiale la città venne occupata militarmente dall’Italia, dal 1940 al 1943, anni in cui ebbe luogo un tentativo di italianizzazione forzata (toponomastica italiana, scuole in italiano ecc.), alla quale parte dei mentonesi oppose resistenza, mandando i bambini nelle vicine scuole di Roccabruna e Monaco. Molti lasciarono la città.
Infatti In seguito all’armistizio del 24 giugno 1940, i due terzi del territorio del comune furono occupati ed annessi all’Italia dall’estate del 1940 fino all’8 settembre 1943, data dell’armistizio di Cassibile, quando la città fu allora occupata dai tedeschi i quali costruirono da Cerbère a Mentone il vallo Mediterraneo, una linea difensiva nazista costruita a difesa della costa francese durante la seconda guerra mondiale. L’occupazione finì con la liberazione l’8 settembre 1944, da parte degli eserciti alleati.
Approfondimento: cosa successe nella vicina Monaco
Da il libro di chi scrive “Monaco, un principato par la grâce de dieu”, Liamar Multimedia editore, 2020
La pubblicazione del volume “Monaco sous l’occupation” di Pierre Abramovici, Nouveau Monde Editions, apparso in librerie nel corso del 2015 e successivamente ristampato, consente di dare uno sguardo nuovo sulla storia del principato. Di questo libro si continua tuttora a parlare a Monaco; viene ripreso in servizi televisivi ed é oggetto di incontri e dibattiti.
Riteniamo tuttavia che alcuni aspetti emersi in quella pubblicazione meritano di essere approfonditi, soprattutto da parte nostra, in quanto ci interessiamo agli italiani di Monaco. La storiografia italiana ha la tendenza di ignorare Monaco e soprattutto di sorvolare su un lato un non certo gratificante della nostra storia: la guerra fascista alla Francia sconfitta.
Riepiloghiamo i fatti
IL 10 giugno 1940 quando la Germania ha già sconfitto la Francia, l’Italia dichiara la guerra alla Francia.
L’Italia fascista si era dichiarata « non belligerante », ma Mussolini, nella sua follia, vuole partecipare alla guerra quando sembra che stia per finire e che la vinca Hitler. Vuole partecipare al banchetto, e precipita così il suo paese nella vergogna e nel disonore. Questo fatto viene ricordato dagli storici come una pugnalata alla schiena alla Francia.
La guerra sarà breve ed un armistizio sarà siglato il 24 giugno. L’esercito italiano ha occupato Mentone e qualche territorio sulle Alpi a prezzo di tante perdite.
Mentone viene annessa e diventa parte dell’Italia. Sarà ribattezzata Mentone d’Italia.
Il 28 giugno vi é l’armistizio fra Germania e Francia.
Nasce il nuovo stato, L’ Etat Français, la capitale é a Vichy, ne é presidente il Maresciallo Petain. Dieci luglio 194O
Il nuovo stato non é un nemico dell’Asse, con esso bisogna collaborare. L’ Etat Français e la Germania bloccano le mire di Mussolini, che avrebbe voluto annettersi Nizza ed altro. Deve accontentarsi di Mentone.
L’Etat français collabora con i nazisti nella persecuzione degli ebrei. Gli Italiani non condividono e per quanto possibile li proteggono. Anche questo risulta dalla storiografia in lingua francese. La guerra entra nel suo pieno svolgimento e le cose cominciano a non andare così bene per la Germania e i suoi alleati. Le truppe alleate, 8 novembre 1942, sbarcano in Nord Africa. Le truppe di occupazione tedesche e italiane per contromisura estendono l’area sotto il loro controllo diretto in Francia, in teoria per prevenire eventuali sbarchi nel continente europeo. Le truppe italiane sono autorizzate ad occupare Nizza e le Alpi Marittime. Gli italiani si mettono in marcia da « Mentone d’Italia » e passano per Monaco, per raggiungere Nizza. Passano, sfilano per tre giorni e un reparto resta e segue pure l’OVRA,(Organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo) la polizia segreta fascista.
Alcuni fascisti si danno ad intemperanze nei confronti dell’autorità del Principe e il Principe protesta energicamente. Il popolo monegasco esprime pubblicamente il proprio sostegno al Sovrano e in massa, 2000 persone, partecipano ad una manifestazione di solidarietà. Ci sono comunque, come abbiamo notato, molti fascisti che esultano e manifestano a favore dell’Italia. Il Principato viene ufficialmente occupato con tanto di notifica ufficiale all’ambasciata francese ed altre autorità diplomatiche.
Tuttavia l’occupazione non ebbe alcun carattere oppressivo e testimoni ricordano come il comportamento dei “bersaglieri” fosse bonario. Addirittura nel passaggio dell’anno 1942-1943 vi fu un vero boom turistico. Il casinò era rimasto aperto, unico in tutta la riviera e il periodo delle feste un vero trionfo di ostentazione di lusso e di comportamenti scandalosi. Il popolo era soggetto a severe limitazioni e a penuria alimentare ma col mercato nero si ovviava a qualunque problema: non c’erano problemi per chi poteva pagare. In quel periodo ci fu un afflusso massiccio di loschi personaggi, affaristi vari che cercavano di occultare, in banche del principato, profitti di origine misteriosa.
Tali personaggi erano legati alla diplomazia segreta tedesca, che, malgrado la presenza italiana, si impadronivano dell’economia del principato, in vista di futuri sviluppi anche per dopo la fine della guerra.
L’occupazione italiana durerà fino al 9 settembre 1943, in coincidenza con l’armistizio sottoscritto dall’Italia con gli alleati.
L’esercito italiano senza guida e senza ordini sbanda e le truppe stanziate nelle Alpi marittime e a Monaco si ritirano disordinatamente in Italia. I tedeschi li rimpiazzano ovunque anche a Monaco dove arrivano con truppe blindate li 9 settembre. Hanno l’appoggio del capo del governo monegasco, Emile Roblot che andava sottoscrivendo accordi segreti con i tedeschi.
Questi si presentarono come liberatori da quei “casinisti” di italiani che avevano imperversato per quasi un anno. Il popolo monegasco manifesta la sua gioia dandosi alla distruzione dei negozi italiani di proprietà di fascisti veri o presunti.
La polizia monegasca controllava le distruzioni dei negozi, ma non tollerò saccheggi e furti, né violenze agli italiani.
Mentone contemporanea
Fino al 2019, fino a quando non era arrivato il Covid, Mentone a febbraio festeggiava i suoi limoni, atto doveroso della città a quei frutti che ne hanno segnato la gloria e la storia, sia come rito quasi pagano per anticipare la primavera che, comunque, da queste parti, è sempre un po’ precoce, sia come richiamo turistico .
La Fête du Citron (Festa dei Limoni), che si svolgeva dal 1934, era un avvenimento unico al mondo: le strutture fisse e quelle che sfilano sono fatte con agrumi. Tanto pubblico si affollava festoso dai paesi vicini in tale occasione con bambini ed adolescenti .
Mentone tuttavia non aveva solo la Festa dei Limoni, che durava pochi giorni; la città è vivibile sempre, per undici mesi c’è sole (316 giorni in un anno) e mare, con le spiagge, libere o attrezzate dove si possono fare bagni sette mesi all’anno.
Ci sono tanti appuntamenti culturali: il Festival de la Musique, luglio e agosto, la Biennale di arte contemporanea sacra in ottobre, e tanti altri.
C’è perfino un Casinò, Casino Barrière, che si autodefinisce “un complexe de loisirs au coeur de la Perle de France”.
Vi sono tutti i giochi d’azzardo, ma la concorrenza con Sanremo e Monte-Carlo è dura; quindi questo casinò si è trasformato anche in un luogo conviviale con spettacoli, animazioni, pranzi, cene, feste e mare. Di fronte al casinò c’è infatti una grande spiaggia che è libera, ma attrezzata come se fosse un bagno privato.
Un’altra grande spiaggia si trova a Garavan, nel quartiere ad est, sulla strada verso l’Italia. Il nuovo suggestivo litorale, l’esplanade des Sablettes è stato inaugurato nel 2018. La spiaggia attigua è bellissima, libera, meravigliosamente attrezzata, collegata al centro storico e alla basilica. Particolare importante: il parcheggio è facile da queste parti.
Tornando ai nostri limoni, diciamo qualcosa di più
Storicamente si ha notizia della cultura degli agrumi a Mentone solo verso la fine del Quattrocento, anche se in riscontri ufficiali vengono per la prima volta citati nel 1341.
Precedentemente l’attività prevalente in questi luoghi era l’allevamento delle pecore e neppure la pesca era importante. Vi sono altri documenti del 1495 e in seguito si hanno sempre maggiori notizie.
Mentone faceva parte del Principato di Monaco (dal 1346 fino al 1861) e i sovrani erano ben consapevoli dell’importanza di questa attività che diventava la risorsa principale dello Stato.
Nel 1671 il principe Luigi Primo istituisce un consiglio speciale di 18 persone: i “Magistrats des Citrons.” Questi signori avevano il compito di sovrintendere a tutta l’attività connessa alla produzione e al commercio degli agrumi, al sostegno dei prezzi in periodi di crisi e alla stima dei danni in caso di gelate o tempeste.
Più tardi, nel 1701, la competenza dei magistrati arriva fino al controllo della salute delle piante che si estrinsecava nel rilascio di una speciale “bolletta” da parte di ufficiali sanitari.
A quei tempi l’agricoltura era protetta essendo la risorsa principale dello Stato e sulle culture degli agrumi venivano calcolate le imposte che erano considerate onerose. Già perché, questa è forse una cosa che pochi sanno, nel principato di Monaco, fino al 1866 le imposte si pagavano ed erano esose. Poi le cose cambiarono, ma questa è un’altra storia.
Tornando ancora ai nostri limoni ricordiamo che la prosperità basata su di essi declinò dopo la prima metà dell’Ottocento. Negli anni Quaranta di quel secolo si era raggiunta tuttavia la massima espansione produttiva; ben 35 milioni di frutti per anno.
Il declino dell’economia basata sugli agrumi fu dovuta a diversi fattori: vi furono alcuni anni di clima avverso, lo spezzettamento delle proprietà, errori di irrigazione, problemi di reperimento della mano d’opera, ma soprattutto il cambio strutturale di destinazione della città diventata dal 1861, data di annessione alla Francia, una grande méta turistica e di soggiorno che rivaleggiava, nei suoi fasti con Nizza, Monte-Carlo, Cannes e San Remo.
Alle piantagioni venne tolto lo spazio e cominciò a mancare il personale. Tuttavia rimase attiva una limitata produzione qualificata e di nicchia che consente di mantenere la gloriosa tradizione. Infatti i limoni decorano sempre la città, dove non sono raccolti, ma lasciati sugli alberi per la gioia degli occhi di chi passa.
Infatti un piccolo gruppo di coltivatori ha continuato a produrre questi limoni che col tempo sono divenuti scarsi e costosi, ma ricercati per usi speciali. Marmellate, oli speciali, bevande, fra cui un limoncello qui chiamato Mentonello, oppure ingredienti in varie elaborazioni gastronomiche. Esistono perfino i ravioli “au citron de Menton”. Molti cuochi importanti e stellati, soprattutto a Monaco e dintorni propongono tante ricette basate sul “Citron de Menton”.
Infine, nell’ottobre 2015, l’opera di appassionati e la spinta delle autorità municipali hanno portato al riconoscimento del “Citron de Menton” come Indicazione Geografica Protetta (IGP) da parte della Commissione Europea.
Ora si prevede che la produzione aumenterà: quella attuale è di circa 100 tonnellate per anno. Nel 2000 si era ridotta a 50 tonnellate.
Da allora, con vari sforzi congiunti dei Mentonesi, che vedono nel loro limone un segno di identità, è pure cresciuto il numero delle piante. Ne esistono ora circa 3.000, ma aumenteranno grazie alla IGP, che consente di ottenere buoni prezzi di vendita.
Mentone è diventata nel tempo una destinazione turistica sempre più popolare, con tanti piccoli alberghi, che noi italiani chiameremmo pensioni, costruiti lungo il mare nel secondo dopoguerra. Gli antichi Palaces della Belle Epoque, che erano grandi alberghi, nel tempo si sono trasformati, per la maggior parte in condomini eleganti che come una corona si innalzano sulle colline circostanti. Alla fine dell’Ottocento erano ben 33 i grandi alberghi o Palaces: un numero notevole per una piccola città che allora aveva appena poco più di 9.000 abitanti.
Nelle zone centrali della Mentone moderna, all’incrocio fra Rue Partouneaux e l’avenue Boyer, contigue ai Giardini Biovès, dove si svolgevano le sfilate dei carri durante la “Fête du Citron” si trovano il Grand Hotel des Ambassadeurs. L’albergo costruito negli anni ’60 dell’Ottocento, è l’unico rimasto tale fin da allora e recentemente riaperto al pubblico (Pasqua 2017) nello stile e splendore originario della Belle Epoque.
Le parti metalliche sono opera di chi poi progetterà la famosa “tour” di Parigi: Gustave Eiffel.
Nel 2019 si è svolta la prima Biennale di arte contemporanea sacra (BACS, Biennale d’art contemporain sacré).
La manifestazione ha avuto un grande successo di critica e di pubblico, sono state presentate opere di circa duecento artisti, pittori, scultori, fotografi, alcuni famosi, altri esordienti, tutti di valore e portatori di messaggi di alto livello spirituale.
La seconda edizione, prevista dal 1° al 31 ottobre 2021 si annuncia di portata ancora maggiore, Covid permettendo.
Mentone, la città giardino, la Ville Fleurie ( www.menton.fr)
Elenchiamo ora quelli che sono i luoghi incantevoli da vedere: la bellezza dei giardini, il suo grande numero, la loro estensione, sono il frutto di una scelta politica lungimirante che viene da lontano e che è sempre stata rispettata.
Leggiamo che cosa ne ha detto il sindaco: (da la Histoire de Menton, Éditions Privat 2010, pg185)
Jean-Claude Guibal reformule quant à lui cette caractéristique, et illustre en cela la permanence de l’action politique évoquée plus haut: “A la fin du XIXe siècle et au début du siècle suivant, Menton a constitué un terrain de prédilection pour les paysagistes de genie. Ils ont créé là de rares harmonies végétales. Le relatif isolement géographique de la ville a permis que ces jardins soient préservés quand le reste de la Cote d’Azur connaissait un important développement immobilier.
Aujourd’hui, Menton dispose d’un patrimoine jardin unique en France, et elle est bien décidée à tout mettre en oeuvre pour le restaurer et l’ouvrir au public. La luxuriance de la végétation, les couleurs des céramiques, l’originalité des perspectives sont autant de splendeurs qui contribuent à donner à Menton une certaine idée de l’Eden”. (Traduzione: “Alla fine del secolo XIX e all’inizio di quello successivo, Mentone ha costituito un terreno prediletto per i paesaggisti di genio. Hanno creato qui a Mentone rare armonie vegetali.
Il relativo isolamento della città ha permesso che questi giardini siano stati preservati quando in altri parti della Costa Azzurra vi è stato un grande sviluppo immobiliare. Oggi Mentone dispone di un patrimonio unico in Francia ed è ben decisa a valorizzarlo ed aprirlo al pubblico. La vegetazione lussureggiante, i colori delle ceramiche, l’originalità delle prospettive, sono tanti splendori che contribuiscono a dare a Mentone una certa idea dell’Eden”).
Le Jardin Fontana Rosa, creato negli anni Venti su ispirazione del grande scrittore Blasco Ibanez: fiori e piante, ma anche tante opere in ceramica. (Avenue Basco Ibanez).
Jardin Maria Serena, giardino di un ettaro e mezzo, con tante piante esotiche, ritenuto il luogo con la temperatura più mite di Francia – Promenade Reine Astrid (Garavan).
Le Jardin Botanique du Val Rameh, ovvero i tropici a Mentone. Creato nel 19O5, accoglie tante varietà di piante tropicali e subtropicali. (Avenue St. Jaques).
Le jardin d’Agrumes du Palais de Carnolès, dove si trova la più importante collezione di piante di agrumi d’Europa. Vi sono pure sculture contemporanee (3, avenue de la Madone).
Serre de la Madone: è un luogo fascinoso, appartato, 6 ettari di natura e naturalmente tanti alberi e piante che danno origine a profumi esotici. (74 rue Gorbio).
Villa des Colombières è una messa in scena grandiosa della natura, con piante solo mediterranee e riferimenti alla Grecia classica. Progettata da un artista geniale e multiforme – Ferdinand Bach, (1859-1952) – personaggio complesso che ai suoi tempi diede un grande impulso alla cultura paesaggistica, la villa fu inaugurata nel 1924. Si trova sulla Route de Super Garavan, al n. 312.
Non solo giardini, ma anche musei
Musée de préhistoire régional: un milione di anni di preistoria nella regione
Salle des mariages, presso il Municipio (Place Ardoino), per sposarsi in un posto speciale, decorato interamente da Jean Cocteau (1889-1963).
Museo delle Belle Arti ( Musée des Beaux Arts): nello storico Palais de Carnolès, antica residenza dei Principi di Monaco, adattato a museo nel corso del 1800. (3 avenue de la Madone).
Musée Jean Cocteau, collection Séverin Wunderman. L’edificio è una costruzione contemporanea di grande spessore, ai piedi della città vecchia e ai bordi del mare. (2, quai de Monléon).
Le Cimetière du Vieux Château: molto interessante, ritenuto uno dei più belli di Francia. Adattato in epoca Napoleonica sulle rovine del vecchio castello che un tempo sovrastava la città.
Non solo mare, ma anche collina
Ci sono pure due incantevoli località nelle alture vicine: Gorbio e St. Agnès. Borghi antichi e suggestivi che racchiudono tante memorie storiche, trattorie con cucina di montagna.
Un po’ più lontano, a circa un’ora di auto si può visitare e scoprire la Valleé de la Roja. Vi è una antica strada che da Mentone si collega a quella che da Nizza porta a Torino. Era l’antica Via del sale. Il percorso sfiora alcuni villaggi che grazie alle gabelle ed alle attività legate al traffico di allora(1600/1700) hanno cumulato ricchezze che ha permesso ai devoti abitanti di questi luoghi la costruzione di imponenti edifici religiosi che sono oggi esempi meravigliosi di arte barocca.
I luoghi sono: Sospel, Breil-sur-Roja, Saorge, La Brigue, Tenda.
L’ufficio del turismo (Office de Tourisme)
8, avenue Boyer, tel. 04 83937020)
Organizza gite guidate, nei luoghi sopra citati e nei dintorni di Mentone. Ecco l’elenco
Sospel : Nature & couleurs du Baroque –
Sospel : De la route du sel à la route royale
Sospel : Ombre & lumières baroques
Breil-sur-Roya : À la recherche de l’or vert
Breil-sur-Roya : Clair-Obscur in Albis
Saorge : Magnificat
La Brigue : Couleurs baroques
La Brigue : Clair-obscur à la nuit tombée
Tende : Confidences baroques
Nell’ottobre 2020 qui, nella Valle della Roja e nei dintorni si scatenò l’uragano ALEX, che causò tanti danni e molte vittime. La ricostruzione è in corso e i turisti possono essere accolti.
Gita a Mentone
Consigliamo di partire dal numero 8 di Av. Boyer, Palais d’Europe, sede dell’Ufficio del Turismo. In un vasto locale incontrate personale poliglotta e gentile che vi copre di opuscoli e di informazioni su tutto quello che succede a Mentone. Approfittatene: www.tourisme-menton.fr
Da li a piedi percorrendo rue Partouneaux si arriva in pochi minuti nella zona pedonale, ma prima, al numero 3, soffermativi davanti al Palais des Ambassadeurs, del quale abbiamo già parlato ed ammirate la imponente scultura di Dafne Dubarry, la Madonna degli innocenti. Merita la sosta ed un minuto di raccoglimento.
La zona pedonale è pittoresca ed animata : negozi tipici, molto “charme, un mercato monumentale, il più bello della regione, ( Provence, Alpes Maritimes, côte d’Azur) tanti ristoranti, bistrot e pizzerie.
Le pizzerie sono tante; a Mentone le pizze sono buone come a Napoli. I pizzaioli mentonesi ottengono riconoscimenti a livello internazionale e sono stati pure premiati in Italia.
Fra le tante pizze cercate tuttavia le specialità locali, che sono: fougasse, pissaladière, barbajuan, beignets de fleurs de courgettes, petits farcis, gnocchi, aïoli e la pichade che forse non tutti conoscono. Si tratta di una focaccia tipo pizza ricoperta di pomodoro e cipolla. Tanto street food di buona qualità in ambiente festoso.
Non solo street food, ma anche ristoranti di prestigio
Mentone è diventata una destinazione gastronomica e il ristorante stellato Mirazur di Mauro Colagreco, cuoco italo-argentino, con tre stelle Michelin è ritenuto uno dei migliori di Francia, addirittura il migliore del mondo: nel 2019 in base alla classifica “World’s 50 best Restaurants” risulta il primo.
Colagreco ha pure aperto una pizzeria: Pecora Negra, quai Gordon Bennet.
Nell’anno precedente il migliore ristorante era stato proclamato l’Osteria Francescana di Massimo Bottura, a Modena.
Al confine vi è un altro grande ristorante italiano di fama: I Balzi Rossi, a Ventimiglia.
Vi segnaliamo, nei dintorni dei giardini Biovès anche La Trattoria, ristorante/pizzeria siciliana e Le bistrot dues jardins per chi vuole gustare la cucina franco provenzale.
Qui si trova pure una nuova pizzerie, aperta da quel pizzaiolo che ha vinto tanti premi in Italia: Chef Ziolo, pizza by Raimondo.
Le strade del vino
Se amate il turismo enologico, nel contiguo comune di Ventimiglia e luoghi vicini si estende una vasta zona di vigneti: ci sono i vini della D.O.C. ponente ligure con Vermentino, Pigato e e Rossese. Tante cantine da visitare, ed una località interessante con un antico ponte dipinto ed immortalato da Monet, Dolceacqua.
In questo stesso blog trovate un ampio articolo sui vini del Ponente ligure. (Vedere nel blog la sezione “La passione del vino” – cliccare “I vini del Ponente ligure”).
Sulle spiagge e attorno al porto vi sono locali specializzati in pesce, sempre fresco sempre buono: sono da scoprire. Segnaliamo le Festival Plage.
Spiagge, mare, cucina locale ed internazionale; ma anche turismo d’arte e di storia.
Nella zona pedonale, in Rue Saint Michel si è nel centro della città antica; seguendo le indicazioni si arriva alla monumentale basilica di St-Michel, nel cui sagrato (parvis) si svolgono i concerti del Festival della musica.
La chiesa, basilica dedicata all’Arcangelo San Michele, è un capolavoro d’arte barocca. Dal sagrato si ammira un panorama meraviglioso.
Voluta dal Principe Onorato II è stata aperta al culto nel 1653: è inserita nel grande itinerario, La route du Baroque Nisso-ligure; ottanta monumenti fra chiese, cappelle, fortezze.
Nella Basilica si trovano cimeli storici di grande valore simbolico ed identitario, fra i quali i 4 stendardi e un’alabarda (trasformata in croce processionale) della Battaglia di Lepanto.
A Mentone c’è inoltre un altro luogo di culto importante, più comodo da raggiungere rispetto a quelle situate nella parte antica della città.
Agli inizi del Novecento si rese indispensabile la costruzione di una nuova chiesa, nella parrocchia che viene denominata “Notre dame des Rencontres”, nella parte moderna vicino ai giardini Biovès. I lavori durarono a lungo, ma fu finita e consacrata negli anni Trenta. È in stile neo-romanico, con un impianto classico. Eglise du Sacré Coeur (Chiesa del Sacro cuore), Rue Eduard VII. Ogni domenica, in estate alle 19,30 c’è la Messa in italiano.
Vi sono pure una chiesa anglicana ed una biblioteca britannica
Informazioni generali
La città conta circa 30.000 abitanti, inoltre è il centro di una vasta area che include circa 75.000 residenti. (Tuttavia quasi 5.000 persone tutti i giorni vanno a lavorare a Monaco)
È capoluogo della CARF, Communauté d’Agglomération de la Riviera Française, che comprende in tutto 15 comuni.
Il sindaco, si chiama Jean-Claude Guibal, è in carica dal 1989, in quanto è sempre stato eletto e rieletto con larghissima maggioranza. Fino a giugno 2017 era anche deputato LR, all’Assemblea nazionale. In virtù di una nuova legge, non sono più cumulabili l’incarico di sindaco e di deputato. Jean-Claude Guibal ha scelto Mentone.
Mentone è una città tranquilla, quasi come Monaco: la polizia è presente, non fanno passare i migranti da Ventimiglia. Se qualcuno passa viene mandato indietro o dirottato altrove.
Ci sono tanti italiani, sia come residenti secondari che come turisti. Anche molti inglesi che hanno lasciato una certa impronta. Ai tempi della Belle Epoque era la méta preferita dell’aristocrazia russa.
Come abbiamo già raccontato durante la Seconda guerra mondiale Mentone fu occupata dalle truppe italiane e in seguito annessa (giugno 1940 – settembre 1943). Molti Mentonesi furono deportati e la città subì un pesante processo di italianizzazione forzata.
Oggi è tutto dimenticato da tempo; i Mentonesi sono amici dell’Italia e degli italiani. I rapporti con la vicina Ventimiglia sono più che buoni. “A Menton, difficile d’oublier qu’on flirte avec l’Italie” (Monaco Matin, 12 luglio 2017).
Si insegna l’italiano a scuola ecco dove: Collège André Maurois : 242 alunni; Collège Guillaume Vento: 369 alunni; Collège de la Villa Blanche : 135 alunni; Lycée Pierre et Marie Curie : 503 alunni di cui 70 presentano l’Esabac (bac franco-italien); Lycée professionnel Paul Valery : 148 alunni. (Dati riferiti all’anno scolastico 2020/2021, comunicati dalla Marie de Menton).
Anticamente a Mentone e a Ventimiglia si parlava”quasi” lo stesso dialetto, chiamato, da questa parte della frontiera Mentounasc. La lingua locale ha qualche indicazione stradale, si può studiare a scuola a Mentone e a Roccabruna. Vi è pure una pubblicazione: “Ou Païs Mentounasc”.
Esiste anche una importantissima istituzione culturale: la facoltà di Scienze Politiche, filiale della rinomata Sciences Po di Parigi: fondata nel 2005, è considerato il Campus mediterraneo della facoltà stessa. Ospita circa 300 studenti, la maggioranza non francesi. Gli stranieri sono infatti il 70% (vi sono anche italiani). L’italiano è una delle lingue insegnate, accanto al turco, l’arabo, l’ebraico moderno, e il persiano. I corsi sono in francese ed inglese. L’indirizzo di studi, che comporta una formazione multidisciplinare, è rivolto alle regioni del Mediterraneo. La sede si trova nel centro storico, in un palazzo monumentale di ispirazione italiana. (Sciences Po, campus de Menton, 11 place St Julien, 06500 Menton).
Principato di Monaco e Monte-Carlo: pregiudizi duri da superare
IL 3 marzo 2015 vi è stato accordo fra Italia e Monaco relativo allo allo scambio di informazioni fiscali. Monaco, da allora non è più nella “black list.” Non è più tecnicamente un paradiso fiscale.
L’ accordo è entrato in vigore nell’anno successivo.
Quindi se un cittadino italiano si trasferisce a Monaco e lo stato italiano ha motivi di credere che ci sia qualcosa di sospetto nel trasferimento suo e dei suoi capitali può indagare e chiedere alle autorità monegasche di collaborare all’indagine. Questo vale per quasi tutti i paesi in quanto Monaco si è inserito in un sistema internazionale per il controllo dei flussi di capitali quando vi sono sospetti di origine opaca dei capitali stessi.
Nella stampa ogni tanto succede che quando si parla di un cittadino italiano che è residente o che si trasferisce a Monte-Carlo, quasi sempre scritto erroneamente Montecarlo, si allude ad eventuali comportamenti non conformi in materia di fisco e manovre di capitali.
Queste allusioni sono ingiuste: il principato di Monaco ha una tassazione che favorisce l’insediamento di persone ricche e super ricche, e molti ne approfittano in tutta legalità.
Tuttavia non c’è solo Monaco che favorisce l’insediamento di “Paperoni”; tanti altri paesi lo fanno, fra cui Svizzera, la Gran Bretagna e perfino l’Italia.
Avete letto bene! Anche l’Italia applica un trattamento di favore fiscale a ricchi e super ricchi stranieri che vogliono prendere residenza nel nostro paese.
Leggiamo questa nota del nostro amico Alberto Crosti, dottore commercialista.
L’articolo è molto tecnico, leggere le mie conclusioni riassuntive alla fine.
Articolo di Alberto Crosti
Sei un “Paperone” o un “Oncle Picsou”, come si dice in Francia, o comunque appartieni al gruppo degli “HIigh Net Worth Individuals”? (individui con un patrimonio netto elevato) perché non hai approfittato del regime dei non residenti ?
Si tratta di una “ Offerta di residenza fiscale privilegiata ai super ricchi stranieri o italiani che hanno vissuto all’estero.”
Circa 5 anni orsono l’Italia entrava in competizione con alcuni Paesi europei al fine di attrarre i così detti “HNWI” (High net worth individuals), in sostanza i super ricchi detti in Italia anche i “Paperoni” o alla francese gli “Oncle Picsou”, che sta per Oncle Scrooge, offrendo loro un trattamento fiscale particolarmente di favore .
Occorre però sottolineare che i paesi “competitors”, in particolare la Svizzera ed il Regno Unito, proponevano da tempo i loro regimi a fiscalità privilegiata, offerta peraltro accompagnata da una burocrazia fiscale di gran lunga più efficiente di quella che caratterizzava e ancora di più caratterizza oggi la nostra bella Italia.
Cinque anni sono un lasso temporale sufficiente per permettere di formulare un primo giudizio che, purtroppo, non è positivo stante che i dati noti pubblicati dal MEF, ministero dell’Economia e delle Finanze, relativi al 2018, mostravano 226 “Paperoni” trasferiti in Italia, numero esiguo in confronto ai risultati raggiunti nello stesso anno dai regimi concorrenti, quello svizzero dei “globalisti” con 4.500 adesioni e quello inglese dei “resident not domiciled” che ha registrato 78.000 adesioni.
È ben vero però che il trend delle adesioni è comunque in netto incremento in quanto nel 2019 si sono trasferiti in Italia 421 “Paperoni”, mentre erano soltanto 99 nel 2017, a riprova che i veri effetti si potranno vedere soltanto nel medio periodo, considerato che le decisioni di trasferire la propria residenza non si prendono in tempi brevi richiedendo, al di là delle necessaria riflessione, anche la certezza di potersi avvalere nel paese di destinazione di normativa e prassi consolidate.
Come giustificare quindi un tale “gap” con“competitors”?
La normativa
Brevemente si accenna alla normativa che ha introdotto il regime dei “neo residenti”(Legge 232/2016), rivolta alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2, comma 2 del TUIR (testo unico imposte sul reddito), che possono optare per l’assoggettamento all’imposta sostitutiva pari a euro 100.000 per ciascun periodo d’imposta (25.000 euro per i familiari).
L’imposta sostitutiva copre i redditi prodotti all’estero, ad eccezione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate del primo quinquennio.
Se la normativa italiana prevede che i redditi percepiti da un soggetto residente siano tassati in Italia ovunque siano stati prodotti, l’art. 24 bis del TUIR deroga a tale principio permettendo di plafonare il prelievo tributario sui redditi di fonte estera ad un’imposta sostitutiva pari a € 100.000, imposta che include l’IRPEF e le relative addizionali.
Particolare rilevante, l’’imposta inoltre non solo è sostitutiva della Irpef, ma anche della IVIE (imposta valori immobili estero), della IVAFE (imposta su valori finanziari estero) e della imposta di successione/donazione per beni e diritti esistenti all’estero. L’opzione, che ha una durata massima di quindici anni, è esercitabile dalle persone che non siano state fiscalmente residenti in Italia per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso degli ultimi dieci anni.
Apparentemente il “pacchetto promozionale” offerto è molto accattivante , ciononostante il mercato dei “HNWI” parrebbe non averlo apprezzato:
proviamo ad individuare quali potrebbero essere i limiti dello stesso.
I limiti
In primo luogo proprio il requisito dell’assenza di residenza fiscale in Italia negli ultimi dieci anni ai sensi dell’art. 2, co. 2 del TUIR pare restringere in modo eccessivo la platea dei potenziali beneficiari in quanto è sufficiente il solo requisito formale della iscrizione all’ anagrafe in Italia per qualificare un soggetto come residente.
In una recente sentenza non pubblicata è stato negato a un cittadino estero la possibilità di optare per l’imposta sostitutiva in quanto iscritto all’Anagrafe di un comune italiano (da cui aveva erroneamente omesso di cancellarsi) pur avendo cessato da tempo i rapporti con il nostro Paese. Classico esempio di un formalismo burocratico esasperante e controproducente dato che se il contribuente estero avesse potuto godere del regime agevolativo la nostra Amministrazione avrebbe beneficiato di maggiori entrate !
Un altro elemento che, oltre a scoraggiare il trasferimento di residenza, finisce soprattutto per dissuadere gli investimenti produttivi nel nostro Paese, è la tassazione ordinaria che il “Paperone” subisce per i redditi di fonte nazionale, dato che questi sono regolarmente assoggettati a tassazione. Infatti, considerato l’elevato livello di tassazione delle persone fisiche nel nostro Paese e la sensibilità che i neo residenti mostrano al tema fiscale, è probabile che gli stessi siano più orientati a investire il proprio patrimonio all’estero che non nel nostro Paese.
Vi sarebbe poi un ulteriore ostacolo, il diavolo si cela nei dettagli!, potenzialmente insito in numerose Convenzioni fiscali contro la doppia imposizione, ad esempio con la Francia, paese che potrebbe costituire un bacino interessante di riferimento per i “HNWI”.
Il paese di provenienza del “Paperone” potrebbe disconoscere il trasferimento della residenza, generando quindi in capo al contribuente una doppia tassazione, la prima nel Paese di provenienza, la seconda in Italia, doppia tassazione insanabile stante che l’ imposta sostitutiva non è compensabile con le imposte pagate all’ estero.
Perché esiste questo rischio ? Esiste in quanto il riferimento è all’ articolo 4 del testo convenzionale, deputato a dirimere i conflitti sulla residenza, che individua il presupposto per trasferire la residenza anche all’ assoggettamento nel paese di destinazione alla tassazione . Lecito dunque porsi la domanda se, ad esempio, M. “oncle Picsou” che da Lione, Place Bellecour, si trasferisce a Milano, Torre Breda, attico con vista mozzafiato sulla città, per godere del regime in esame, possa sostenere di essere effettivamente assoggettato ad imposizione convenzionale in Italia.
Due concetti si scontrano : il neo residente deve essere un effettivo “subject to tax” , cioè deve effettivamente pagare le imposte , o più semplicemente “liable to tax” , cioè virtualmente assoggettato alla tassazione. Senza entrare in eccessivi e complicati dettagli, che mal sarebbero “digeriti” dal lettore , e sempre con un occhio al nostro Oncle Picsou, qualche ragionevole dubbio il medesimo potrebbe averlo , alla luce della giurisprudenza francese, situazione questa che esporrebbe il “Paperone” ad una doppia tassazione.
In effetti è difficile sostenere che il pagamento di una imposta forfettaria, che include anche altre imposte (leggasi Ivie ed Ivafe) non coperte convenzionalmente, oltre alle imposte di successione /donazione possa essere vista da un’ Amministrazione estera come un effettivo pagamento dell’ imposta in Italia , minando quindi il concetto di “subject to tax”.
Il regime dei “Paperoni” presenta alcune criticità che derivano dalla normativa e dalla prassi, ma anche dalle Convenzioni e da come le stesse possono essere interpretate dalle Amministrazioni estere.
Se si volesse tentare di fornire suggerimenti per rendere questa misura maggiormente accattivante, una modifica potrebbe prevedere che l’imposta sostitutiva riguardi solo l’Irpef, attribuendole una qualifica di convenzionale.
Un’apertura da parte dell’Amministrazione potrebbe prevedere la non considerazione del requisito formale dell’iscrizione all’anagrafe, aprendo quindi alla possibilità di attirare quei “Paperoni” che, o per una ragione o per un’altra, pur non essendo di fatto residenti in Italia, sono rimasti erroneamente iscritti all’anagrafe.
Ma, al di là delle esposte criticità tecniche, forse la verità è molto più banale: se l’ indice complessivo di attrattività del nostro Bel Paese colloca l’ Italia al 24° posto nel “range” ( vedasi “Il Corriere della Sera “ del 10 Maggio , a cura di F. de Bortoli ), a cascata ne discende che anche l’ “appeal “ per venire in Italia pur godendo di “scudi” fiscali sia per lo meno scarso.
Sorge quindi il dubbio sul nostro “sistema paese” che presenta relativamente ai rapporti fisco-contribuente un “gap” rilevante sia con il Regno Unito che con la Svizzera: è verosimile pensare che una riduzione del “gap” esistente potrebbe rendere la misura agevolativa molto più appetibile per il Paperone straniero.
Conclusione riassuntive
Il titolare di un ingente patrimonio fuori d’Italia che percepisca pure un alto reddito, sempre fuori d’Italia e vuole risiedere nel nostro bel paese, se la può cavare, fiscalmente parlando, pagando solo 100.000 euro di imposta per anno. Tuttavia vi potrebbero essere alcune complicazioni.
Per sapere di più su gli italiani a Monte-Carlo, consigliamo, su questo stesso Blog di cliccare “Il Principato di Monaco” e leggere:
Gli Italiani a Monaco, miti e realtà di una storia ignorata.
Prosciutto e melone: un classico piatto estivo. Che vino abbinare?
Divagazioni su abbinamenti fra cibo e vino.
Abbiamo un veloce piatto estivo, di quelli che funzionano sempre in tante occasioni. Che piace molto, eccellente quando i prodotti sono di qualità. Con che cosa lo beviamo? Ad un piatto così ci vuole un abbinamento adeguato, naturalmente. Si tratta ora di scegliere quello giusto.
La cosa sembra molto semplice; ma non è così: vediamo, cosa ne pensano a gli esperti.
Prima di tutto si deve valutare la struttura del cibo, che nel nostro caso sarà leggera, pertanto anche il vino dovrà essere leggero, molto leggero. Poi conviene sempre pensare alla principale caratteristica del piatto, che tende al dolce ed è anche aromatico. Tendenza dolce perché il melone è, per l’appunto, dolce e pure il prosciutto crudo può vagamente esserlo (dipende dalla tipologia ovviamente), e poi c’è l’aromaticità perché entrambe le materie prime di cui è composto il piatto sono molto profumate. Non si tratta di un piatto del sud-est asiatico, ma comunque l’aromaticità è buona.
Ora la domanda: occorre il gusto del tannino? Direi di no, non ci sono intingoli da asciugare o grasso da pulire. No, meglio niente tannino, quindi nessun rosso. Serve uno spumante? Ancora di no. Infatti non c’è nessuna parte del piatto che occorre sgrassare con l’aiuto dell’effervescenza. Tolti i rossi per via del tannino e gli spumanti per via delle bollicine, rimangono i vini bianchi fermi e i rosè. Non è che il campo si sia ristretto di molto, però continuando a ragionare lo definirei ancor meglio. Abbiamo detto bassa struttura e buona aromaticità.
Queste caratteristiche completano, se non del tutto, in buona parte il quadro: ci occorre un bianco leggero (non troppo) e profumato, con una buona acidità che contrasti la tendenza dolce. Bianco, leggero, acido, profumato, ecco l’identikit del nostro vino. Come si può capire non sono pochi quelli che rispondono a questa descrizione, a riprova che l’abbinamento cibo vino non è così vincolante come lo si presenta a volte: fra i tanti vini disponibili sceglieremo il Pinot Bianco.
Cosa dicono “gli altri”?
I francesi tuttavia la pensano in maniera diversa: dal già citato “Figaro vin” leggiamo.
“Le melon me semble d’instinct appeler un vin blanc doux. Très appréciée de nos grands-parents, l’alliance avec le Porto n’est pas aussi judicieuse qu’il y paraît de prime abord : sauf à tomber par hasard en même temps sur un melon exactement mûr et un porto jeune et déjà complexe, l’un dominera forcément l’autre. En revanche, le mariage melon-jambon cru – sucre contre sel – constitue une entrée très agréable.
Et je l’escorterais volontiers d’un blanc demi-sec comme ceux qu’on trouve dans la Vallée de la Loire, du côté de Montlouis ou de Vouvray : leur fruité et leur bouquet légèrement exotique sauront tenir tête à l’intensité aromatique du melon. Tandis que le sucre résiduel présent dans les vins épousera naturellement la douceur de l’assiette. Dans cette région-là, j’ai un faible pour les vins que produit François Chidaine en son Clos du Breuil : ses montlouis demi-secs Les Tuffeaux (tout en rondeur) et Clos Habert (tout en saveurs) non seulement s’épanouiront sur le melon, mais de surcroît mettront l’assiette en valeur”. La traduzione più avanti.
A scrivere è Enrico Bernardo, italiano di nascita che ha un ristorante a Parigi, miglior sommelier del mondo nel 2004. Diventato molto francese nei gusti del vino. Il suo ristorante di Parigi si chiama “Il vino” .
Ebbene, dice che d’istinto quando si parla di vino per il melone gli viene in mente un vino bianco dolce. Certo, la scuola classica suggeriva il Porto, ma Bernardo ritiene (giustamente) che l’effetto finale sia coprente, e dunque niente.
Se in tavola c’è prosciutto e melone – “zucchero contro sale”, annota il sommelier – meglio cercare un blanc demi-sec di quelli che fanno nella Valle della Loira, a Montlouis o a Vouvray.
Concordiamo con Bernardo, si tratta di vini favolosi, e con quel loro profumo vagamente esotico col melone ci stanno benone.
Se invece il melone arriva per dessert, la soluzione è in un Muscat “vendange tardive” dell’Alsazia.
Siamo d’accordo. Ma se volessimo bere italiano? Citiamo ora Angelo Peretti, giornalista, che anima il blog “The internet Gourmet”
“Provo a rispondere io. E dunque, con l’abbinata prosciutto e melone in genere io mi oriento verso un rosé, ma di quelli chiarissimi di colore, e quindi neppure minimamente toccati da vene di tannicità. Insomma, mi allontano dal dolce e preferisco cercare il sale del prosciutto. Oppure, se volessimo seguire l’esempio della Loira, perché non metterci un Moscato d’Asti che abbia qualche anno di affinamento in bottiglia? Sì, certo, il Moscato d’Asti – quello buono – invecchia che è un piacere. Un piacere, proprio.”
Se ci rivolgiamo ad un esperto americano abbiamo un’altra risposta: il Riesling è perfetto sia esso leggermente secco o leggermente dolce. Va pure bene il Moscato d’Asti, schiumoso e frizzante.Però se lo preferite potete provare un rosato secco, sarebbe perfetto, ma anche un Beaujolais, un pinot nero leggero andrebbero bene per fare risaltare il prosciutto.
(Riesling is a perfect foil for this appetizer, in softly-dry to softly-sweet styles. Moscato d’Asti is light, frothy, fresh and crisp and would be a delightful sip. If you prefer, a dry Rosé would be perfect, or try a Beaujolai gamay or lighter pinot noir to set off the Prosciutto).
La domanda che ci facciamo a questo punto è la seguente: per un piatto così banale quante storie per trovare un vino che vada bene.
Avete detto banale?
Leggete questo scritto, di Liana Marabini, apparso, in francese nel sito “Cuisine et Histoire” .
Alla fine di queste divagazioni l’altra domanda è : con cosa berrebbe con prosciutto e melone, l’autore di queste note?
Acqua, per non alterare il raffinato equilibrio di sapori del prosciutto e melone. Siccome è un antipasto sceglierò un vino che va bene coi piatti che seguiranno.
Gli enologi e la loro Santa patrona
di Liana Marabini
È una tarda mattinata di ottobre, siamo nel 1323 ad Alvalade, una frazione di Lisbona.
Due eserciti, uno di fronte all’altro, sono pronti per la battaglia. Il silenzio greve è interrotto solo dal grido degli uccelli, che volteggiano nell’aria tiepida. Una leggera brezza porta il profumo degli alberi di agrumi, che impregna l’aria.
Una carrozza scura con le armi reali dipinte in oro sulla cassa si ferma poco distante. Il cocchiere aiuta a scendere una donna fragile, vestita di nero, che si avvicina decisa. Passa nello spazio che separa i due eserciti, con l’abito nero mosso dalla brezza e la grande croce d’oro appesa al collo, che lei stringe nella mano, come per assorbirne la forza. Un raggio di luce l’accompagna e si allunga, diventando una barriera luminosa che separa i due eserciti. Lei non dice una parola, guarda avanti e continua a caminare. Sul suo passaggio la luce si fa più intensa. Gli uomini si mettono in ginocchio, da una parte e dall’altra e abbassano la testa.
Lei è la regina del Portogallo, Elisabetta.
I due eserciti sono stati riuniti da due uomini, padre e figlio, il re Dionigi del Portogallo e il principe ereditario Alfonso (divenuto poi re con il nome di Alfonso IV). Entrambi sono cari al suo cuore, uno è il marito, l’altro il figlio e l’idea di vederli dilaniarsi la atterrisce.
Ha pregato tutta la notte nella sua cappella privata, è rimasta in adorazione e il Signore le ha mostrato la via. Ha pensato che anche quei soldati sono figli di qualcuno, mariti di qualcuno. E ha deciso di andare a vederli, chiedendo la luce all Spirito Santo. Ed è stata esaudita. I due eserciti si ritirano, lo spargimento di sangue è evitato.
Questo è un episodio della vita della futura Santa Elisabetta del Portogallo (1271 – 1336), menzionato in un manoscritto conservato nella Collezione Parra.
Ma questo gesto le costò la libertà, perché il marito l’accusò di essersi schierata con il figlio e la bandì da Corte, relegandola in una fortezza. Ne uscì alla morte del re: donò la corona al Santuario di Compostela, dove fece pellegrinaggio. Poi regalò tutti i suoi averi ai poveri e ai conventi e diventò francescana del terzo ordine, ritirandosi nel monastero delle Clarisse di Coimbra (dove avrebbe concluso la sua esistenza terrena).
È una donna che ha dedicato la vita alla famiglia, al suo Paese e a Dio. Era soprannominata “la pacificatrice”, perché aveva la capacità di smorzare i conflitti e riportare la pace (come nell’episodio sopra descritto).
Fu canonizzata nel 1625, sotto il Papa Urbano VIII e la sua ricorrenza è festeggiata il 4 di luglio. È l’unica Santa patrona degli enologi (quasi tutte le professioni hanno più di un patrono, ma gli enologi hanno solo lei).
Sant’Elisabetta del Portogallo e il vino hanno storie che si intrecciano. Tutto ebbe inizio ancora prima che lei prendesse i voti, nel monastero stesso delle Clarisse di Coimbra (da lei fatto costruire mentre era regina). Il monastero si trovava in mezzo ad una grande distesa di vigne. Qui la regina decise di produrre il vino per la Messa di tutte le chiese del Portogallo.
Le Clarisse lavoravano la terra e le viti, ma per fare un buon vino la regina mandò don Edoardo de Aviz, grande commerciante di vini e conoscitore senza pari della “chimica” del vino. Fu lui che “compose” il vino delle Clarisse, abbinando diversi vitigni, sorvegliando le grandi botti nelle quali il vino maturava e controllandone il trasporto poi verso le più remote contrade portoghesi e le loro chiese.
Don Edoardo era un enologo. Era navigatore e commerciante di vini in un’epoca in cui il Portogallo predominava in questo commercio. Avevano raggiunto il successo vendendo vino all’Inghilterra, alle Fiandre e alle città della Lega anseatica, strappando lo “scettro” di questo commercio a Castiglia ed Aragona.
Il Portogallo aveva conquistato il mercato ed ora difendeva la sua indipendenza commerciale con la forza delle armi. Le lunghe lotte per cacciare i Mori con l’ausilio dei crociati stranieri e dei Cavalieri templari, diede un sigillo religioso al desiderio di conquiste. In nessun altro popolo era così profondamente insito l’antico spirito delle crociate. Fare la guerra contro l’islam apparve allora ai portoghesi il loro naturale destino ed un dovere come cristiani.
In questo contesto il vino diventa un simbolo e la necessità di mantenerne alta la qualità forgia la figura professionale dell’enologo, che inizia là dove quella del vignaiolo finisce. L’enologia è una scienza complessa e l’enologo una figura professionale che segue tutte le fasi della produzione del vino: dalla produzione dell’uva, alla definizione del protocollo di lavorazione, alla valutazione della qualità dell’uva, fino all’imbottigliamento ed alla commercializzazione del prodotto finito.
In realtà è una professione antica, iniziata ben prima dell’epoca di Elisabetta. Se analizziamo i documenti che parlano della scienza di fare il vino, troviamo già nel III secolo a.C. gli scritti di Magone il Cartaginese, autore di un trattato di agronomia in 28 volumi in lingua fenicia che avrebbe costituito, per tutto il periodo classico, una delle fonti più significative sull’argomento. Il testo originale è andato perduto, ma sono sopravvissuti dei frammenti delle traduzioni in greco e latino. Nel 146 a.C., la terza guerra punica si concluse con la distruzione di Cartagine ad opera dei Romani. Il contenuto delle biblioteche puniche venne consegnato ai sovrani numidi – alleati di Roma – con l’eccezione dell’opera di Magone che fu traslata a Roma dove sarebbe stata tradotta in latino da Decimo Silano. L’opera – già popolare per la traduzione in greco di Cassio Dionisio, contemporaneo di Magone – fu successivamente riadattata da Diofane di Nicea che la suddivise in sei volumi.
Il primo trattato di viticoltura ha invece come autore Teofrasto (371-287 a.C.). Nella sua opera “Ricerche sulle piante”, analizza la fisiologia della vite, i metodi di potatura e le malattie che la attaccano. L’autore descrive i metodi dei viticultori greci, che non sostenevano le viti con la pergola, come facevano gli Egizi o come poi avverrà in Italia. Lasciavano invece le vigne basse, appoggiate al suolo, a eccezione dei sostegni necessari per proteggerle dall’umidità. Teofrasto fu discepolo di Aristotele a cui succedette nella direzione del Liceo (il Peripato) nel 322 a.C.
Si susseguirono: Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), la cui opera “De agricoltura” del 160 a.C. è la prima opera intera in prosa che ci sia pervenuta in lingua latina e da la misura di quanto la viticoltura pesasse nell’economia agraria italica intorno al II secolo a.C. Poi fu la volta di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) che nel “De re rustica” fa una “fotografia” dell’enologia del suo tempo; Strabone (58 a.C.-21 d.C.), autore della “Geographia”, nella quale troviamo il resoconto più completo della distribuzione della viticoltura e dei vini del “mondo conosciuto” alla fine della Repubblica e al principio dell’Impero (paesi mediterranei).
Nella nostra era dobbiamo citare Columella (4 – 70 d.C.) autore della magnifica opera “De Re Rustica” e che nella Roma imperiale fu il maggior erudito in campo agricolo.
Plinio il Vecchio, vissuto a cavallo tra le due ere, ha scritto un’opera senza eguali, che spazia dal campo agricolo a quello storico, dagli aspetti scientifici a quelli folcloristici dal titolo “Naturalis Historia”: una grande enciclopedia in 37 libri ancora oggi di grande aiuto per comprendere la vita nell’età latina e soprattutto la produzione vinicola dell’epoca.
Rotari (606 – 652) fu re dei Longobardi e re d’Italia dal 636 al 652. I Longobardi trasformano radicalmente la struttura terriera romana e si crea una nuova aristocrazia agricola: ebbero grande rispetto per il vino, simbolo di nobiltà e, come popoli del nord, furono molto attratti dai pretiosa vina italiani. Per ridare forza all’agricoltura e in particolare alla viticoltura, indebolite da secoli di abbandono e di razzie, nel 643 Rotari emano l’“Editto di Rotari” (643), nel quale vi sono articoli che riguardano la protezione della vite che documentano l’importanza attribuita anche a quei tempi alla viticoltura.
Anche Carlo Magno (742 – 814) emana, nel 789 il “Capitulare de Villis et Curtis Imperatoris” (789) una raccolta di norme e disposizioni in cui molti capitoli sono una raccolta di regole agricole e di tecniche dedicati alla viticoltura, al vino e alla sua fiscalità. Il documento era attuato dai “Missi dominici” (gli ispettori del sovrano) che dovevano imporlo nei possessi imperiali. Carlo Magno e i Franchi, avevano un’autentica venerazione per il vino e per la sua qualità: in alcuni articoli del “Capitulare” si impone la massima cura nella pulizia dei vasi vinari e nella preparazione dei vini, e si pretende che i torchi non manchino mai nelle aziende rurali.
Nel Medioevo italiano, Pier de’ Crescenzi (1233 – 1320) è stato uno scrittore e agronomo bolognese. È considerato il maggiore agronomo del Medioevo occidentale (ma è anche studioso di filosofia, di medicina, di scienze naturali e di giurisprudenza). Nella sua opera “Liber commodorum ruralium”, completata fra il 1304 e il 1309, fornisce molte informazioni relative ai modi in cui le tradizioni della viticoltura classica venivano interpretate in Italia durante il periodo medioevale.
Nel Cinquecento troviamo un altro grande enologo: Sante Lacerio (1500 – 1565), “Bottigliere papale” come egli stesso amava definirsi. Curò i vini di Sua Santità Paolo III, che, gracile d’aspetto ma forte di natura, visse e governò la Chiesa fino alla bella età di 82 anni, aiutato nella ricerca dei vini migliori dal fido consigliere Lancerio, a testimonianza che il buon bere aiuta a prolungare in serenità e in sapienza la vita. Il Lancerio può essere considerato, oltre che enologo, anche il primo sommelier in assoluto che aveva la responsabilità sugli approvvigionamenti del vino di Sua Santità, sia in sede che in viaggio. Lacerio seguì il suo compito con capacità e passione, assaggiando, sorseggiando, osservando e consigliando i vari tipi di bevanda. È autore di uno straordinario documento, “Lettera sulla qualità dei vini”, i cui dettagli sono menzionati qui: https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/moderna/letteratura/Lettera-sulla-qualita-dei-vini–Sante-Lancerio.html
Sempre nel Sedicesimo secolo, considerato “il secolo delle grandi bevute”, troviamo Castore Durante da Gualdo (1529 – 1590), medico, botanico e poeta italiano del Rinascimento, che ha pubblicato opere importanti, come “Herbario nuovo” e il “Tesoro della sanità”, nel quale scrive a proposito del vino: “Il vino moderatamente bevuto, partorisce molti comodi all’animo e al corpo, perciò che quanto all’animo si rende più fedele e più mansueto, l’anima si dilata, gli spiriti si confortano, l’allegrezze si moltiplicano, i dispiaceri si scordano, chiarifica l’intelletto, eccita l’ingegno, raffrena l’ira, leva la malinconia, induce allegrezza…”.
Nel Seicento citiamo Dom Pérignon, enologo par excellence, autore della prima “cave” di champagne, che lui ha creato per Luigi XIV (il Re Sole). Era un religioso, “celliere” nell’Abbazia di Hautvillers, universalmente riconosciuto come creatore dello champagne: assemblaggio di uve e di vini, spremitura rapida e frazionata delle uve nere per estrarre un succo bianco e cristallino, utilizzo delle prime bottiglie in vetro spesso e resistente; sostituzione di un cavicchio in legno ricoperto di canapa con un tappo in sughero di Spagna, trattenuto da una cordicella per conservare la spuma; invecchiamento in cantine scavate nel tufo, capaci di assicurare una temperatura costante e di limitare le alterazioni.
E possiamo continuare fino ai nostri giorni, ma ci fermiamo qui, per mancanza di spazio.
Fatto sta che la figura di una donna di fede e nobile regina, rimarrà per l’eternità indissolubilmente legata ad una figura professionale altrettanto nobile, quella dell’enologo.
Gemellaggio Monaco/ Dolceacqua: il Comune di Monaco, un approfondimento
La stampa sia monegasca che quella italiana in Liguria, hanno dato ampio spazio a questo avvenimento, che, comunque, avrà luogo nel 2023. Il fatto è significativo ed importante, ma bisogna notare che il gemellaggio non è fra il Principato e Dolceacqua, ma con il Comune di Monaco. Sì, perché Monaco non è solo Stato, ma anche comune. Vale la pena di parlarne…..
Monaco ha anche un sindaco, che è importante…
Monaco è un Principato, uno Stato, ne siamo ben consapevoli. Ma è anche un comune, del quale forse non ne siamo altrettanto consapevoli. Noi, Italiani a Monaco, avvertiamo la presenza dello Stato, delle sue istituzioni : la corte, il principe e le principesse sono il segno incarnato della tradizione monarchica, il Consiglio Nazionale è il Parlamento, l’espressione del popolo monegasco che partecipa alla politica del proprio paese. C’è la polizia onnipresente, protettiva, rivolta alla sicurezza dei cittadini, siano essi nazionali o residenti. Ci sono il governo e i ministri, molto attivi e dediti a cose concrete. Visibili e “alla mano”, in caso di bisogno.
C’é pure il sindaco che è il capo del Comune, e il consiglio comunale: quello che forse non tutti sanno è che hanno radici antichissime nella storia di Monaco, da prima ancora che diventasse signoria e poi principato dei Grimaldi.
Andiamo con ordine tuttavia, partendo da ciò che è oggi: il Comune di Monaco è l’unica divisione amministrativa del Principato di Monaco, e i suoi confini coincidono con lo Stato. Il comune è nella Costituzione. L’ordinamento comunale è costituzionalmente rilevante e ben 10 articoli gli sono dedicati. Titolo IX , dal 78 all’87, tenendo presente che, in tutto, la Costituzione del Principato ha 97 articoli.
Il Comune di Monaco dispone di un Consiglio comunale composto da 15 membri. Sono elettori i poco più di 7.000 cittadini monegaschi; per essere eletti è necessario aver compiuto 21 anni. I residenti stranieri sono naturalmente esclusi da queste votazioni.
Il sistema elettorale è plurinominale a due turni, su liste : ogni elettore ha quindici voti di preferenza che può distribuire a suo piacere fra le eventuali liste concorrenti, se ci sono. Sono eletti al primo turno i candidati della lista che ottiene la maggioranza + uno dei voti. Se una lista ottiene il 49,99 % non ha nessun eletto. È tuttavia possibile il panachage, cioè votare una lista e un candidato di una lista diversa.
Il consiglio elegge nel suo interno il sindaco e i suoi adjoints, ossia gli assessori. La consuetudine politica è che il candidato alla prima poltrona cittadina sia indicato agli elettori nella figura del capolista della lista più votata. Il sindaco attuale è Georges Marsan, di professione farmacista, in carica dal 2003 e via-via rieletto ogni quattro anni fino alle ultime elezioni del 2019. Resterà in carica fino al 2023.
Qualche cenno di storia
La Costituzione del 1911 divise il vecchio Comune di Monaco nei tre comuni di Monaco-Ville, Monte-Carlo e La Condamine, ma il governo del principe fu accusato di aver operato una forma di divide et impera nei confronti dell’unica istituzione democratica del Paese, avendo il Consiglio nazionale, da poco costituito, poteri estremamente limitati. Le polemiche portarono in tempi relativamente brevi alla revisione della decisione, restaurando il Comune unico con una legge del 1917, operativa dall’anno successivo. Da allora il territorio monegasco è amministrativamente indiviso, e i quartieri cittadini hanno unicamente funzioni statistiche.
L’anno 1911 era stato cruciale per la storia di Monaco. Regnava allora Alberto I, sovrano illuminato, scienziato ed esploratore, grande navigatore. Era un uomo sensibile e di fronte alle inquietudini del popolo monegasco di allora, che non partecipava come era auspicabile alle fortuna del Principato, volle rispondere adeguatamente alle esigenze del momento e concesse quella Costituzione che fece di Monaco uno Stato costituzionale.
Quella Costituzione é quella ancora vigente oggi, sia pura largamente emendata ed aggiornata.
In quella occasione il Principe, invece di trasformare la antica istituzione comunale in un parlamento, volle costruire ex novo il Consiglio Nazionale come espressione dei nuovi tempi; tuttavia riformò addirittura l’antica istituzione dividendo il territorio del Principato in tre comuni. La decisione comunque non si rivelò felice e si ritornò all’unica amministrazione comunale, che è quella di oggi anche se aveva radici antichissime.
Il comune antico o universitas
Dai libri di storia apprendiamo che fin dal XIII secolo la comunità degli abitanti, i capofamiglia, si riunivano periodicamente per discutere di interessi comuni come la gestione del territorio, la manutenzione di strade e sentieri, della chiesa, degli ospedali. Si parlava di feste padronali, ma anche come provvedere alla difesa in caso di attacchi nemici. Questo succedeva ancora prima dell’arrivo dei Grimaldi. La repubblica di Genova, del cui possedimenti allora Monaco faceva parte, delegava i suoi “castellani” che presiedevano queste riunioni. I Grimaldi mantennero queste usanze e le rafforzarono e condivisero con il popolo monegasco, la universitas, la cosiddetta ordinaria amministrazione degli affari della Signoria – poi Principato – di Monaco.
Le cose pare abbiano funzionato abbastanza bene in perfetta armonia fra popolo e principe. Nel XVI secolo si ha notizia che l’istituzione si è formalizzata. La comunità é gestita da un consiglio composto da quattro sindaci , dodici consiglieri, il podestà, che rappresenta il principe, che presiede e che si fa assistere da un segretario, coadiuvati da funzionari del Comune.
Col tempo le riunioni si fecero sempre meno frequenti. Nel 1790, il Principe Onorato III, ai tempi della Rivoluzione francese, introdusse un consiglio comunale di 18 persone con l’intenzione di organizzare il territorio.
Poi ci fu l’occupazione dei francesi, l’abolizione del Principato e l’annessione alla Francia. Seguì la Restaurazione e poi la storia del Principato ebbe una svolta radicale, ma del Comune non si hanno molte notizie fino a quelle del 1910 , anno fatidico in cui si avviarono le grandi riforme del 1911 : la Costituzione e perfino l’istituzione di tre comuni.
Dopo il ripristino di un solo Comune, nel 2018, l’attività di questo ente è stata ordinata e tranquilla e i vari sindaci si sono succeduti senza scosse.
Qualche “brivido” solo nel 2015…
Nella primavera del 2015 sono indetti i comizi elettorali per il rinnovo del Consiglio Comunale. Contrariamente alle elezioni precedenti questa volta vi è un gruppo di persone, che si presenta come alternativa al sindaco in carica, Georges Marsan, proclamando che è ora di cambiare. La lista concorrente si chiama Un regard Neuf capeggiata da Frank Nicolas. Abbiamo avuto modo di leggere i programmi di entrambi gli schieramenti e non abbiamo notato alcunché di notevole. Gli uni propongono di fare meglio degli altri le stesse cose.
L’interesse nella competizione elettorale si accentua quando viene annunciata la candidatura, nella lista promossa da Frank Nicolas, di un componente della famiglia del principe. Si tratta della signora Cecile Gelabale de Massey, moglie separata del Barone Christian de Massey, imparentato con la famiglia del principe Alberto.
La notizia sconcerta e provoca la riprovazione del Palazzo, poiché vi è una antica e consolidata tradizione secondo la quale i membri della famiglia regnante non devono essere coinvolti nella politica e partecipare a competizioni elettorali. La candidatura viene pertanto ritirata creando un certo imbarazzo ai promotori della lista.
Si arriva così alle elezioni, con qualche tensione e larga partecipazione, oltre il 60% degli iscritti, ma i risultati non danno adito ad alcun dubbio. Stravince la lista Evolution communale del sindaco uscente, con il 75% dei voti. Si prende tutti i 15 seggi in palio. Il sistema elettorale non consente alla minoranza nessun seggio e quindi… non c’è minoranza rappresentata nel consiglio comunale.
Il sindaco riconfermato: Georges Marsan, viene insediato dopo un mese dalle elezioni in forma solenne. Sarà confermato nuovamente nel 2019, ed è tuttora in carica fino al 2o23, come abbiamo visto.
Quali sono le competenze del Comune?
Ricordiamo che il Comune impiega circa 650 persone suddivise in 19 servizi municipali raggruppati in 6 settori:
– Affari sociali: iniziative a favore della piccola infanzia, assistenza agli anziani
– Affari culturali : la mediateca, l’ Accademia Rainier III, la Scuola superiore di arti plastiche, il Jardin Exotique.
– Attività di animazione, le feste e le ricorrenze.
– i servizi amministrativi come anagrafe, stato civile, sport, demanio, affissioni
– Gestione delle risorse umane, le comunicazioni e i servizi tecnici.
Inoltre il parere del consiglio comunale è rilevante, anche se non vincolante, quanto si tratta di prendere importanti decisioni in campo urbanistico, sul traffico e destinazioni commerciali.
Il Comune è pertanto competente per i rapporti con altri comuni e la pratica del gemellaggio è una consuetudine molto diffusa in Europa. L’ idea è nata da una proposta dei sindaci, come sintetizzato da questa lettera.
Come si vede dalla lettera i sindaci evocano un fatto importante nella storia dei rapporti fra Monaco e di Dolceacqua , avvenuto nel 1523. Allora quelle zone di confine erano oggetto di rivendicazione fra le potenze di allora e causa lotte e guerre fra Genova, Milano, Savoia, Spagna e Francia.
Dolceacqua ebbe nel Cinquecento periodi turbolenti, oggetto di disputa fra i Grimaldi di Monaco e i Doria.
Oggi è un ridente borgo ligure, comune di 2000 abitanti, una piccola capitale del vino, il Rossese di Dolceacqua DOC.
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Bibliografia e fonti di informazioni: La stampa locale (Monaco Matin, L’Observateur de Monaco, Monaco Hebdo, La Gazette de Monaco, La Principauté).
Per i riferimenti storici: Mauro Marabini “Monaco, il Principato, per la grâce de Dieu” – Liamar Multimedia, 2020.