Pubblichiamo con piacere l’articolo del nostro collaboratore Luca Caruso, giornalista e vaticanista della Fondazione Ratzinger.
L’italiano come idioma della Chiesa e il Papa come straordinario “ambasciatore” della lingua italiana nel mondo. È una valutazione che si va affermando sempre più, suffragata da numerose argomentazioni.
Pur se la lingua ufficiale della Chiesa rimane infatti il latino, adoperato nella liturgia e nei documenti magisteriali, e nonostante la missione universalistica dell’istituzione ecclesiale la induca a un atteggiamento plurilingue, è al contempo vero che l’italiano è, di fatto, la lingua della comunicazione, l’idioma “operativo” maggiormente in uso in Vaticano, quello in cui sono redatti la legislazione e i documenti interni, la corrispondenza all’interno della Curia, tra Dicasteri e uffici, e all’esterno verso diocesi, parrocchie, istituti religiosi e associazioni, così come la lingua usata dal Pontefice nella sua quotidiana attività pubblica, sia nell’Urbe che nel corso dei frequenti viaggi apostolici.
La minore dimistichezza di Papa Francesco con le lingue straniere, rispetto ai suoi predecessori come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, inoltre, lo porta a pronunciare le omelie e i discorsi quasi sempre in italiano, lingua che il Pontefice padroneggia alla perfezione poiché discende da emigrati italiani, anche quando riceve o incontra gruppi stranieri. Essendo argentino, parla tuttavia lo spagnolo quando si trova in Paesi ispanofoni. Ma l’utilizzo quasi esclusivo dell’italiano lo connota come uno speciale, autorevolissimo “ambasciatore” della lingua italiana nel mondo.
Perfino due delle sue tre Encicliche, contrariamente alla tradizione che ne vuole il titolo in latino, riprendendo le prime parole del testo, hanno il titolo in italiano: “Laudato si’”, sulla cura della casa comune, e “Fratelli tutti”, sulla fraternità e l’amicizia sociale, entrambe citando parole di san Francesco d’Assisi.
Ha scritto Tullio De Mauro: “Se fino al Concilio Vaticano II il latino è restato lingua della liturgia e dell’ufficialità della Chiesa di Roma, la sua vera lingua di lavoro, (…) cui sono stati tratti e attratti chierici di tutto il mondo, è stata e pare restare ancora l’italiano”.
L’italiano è considerato, quindi, “la lingua ufficiale della Chiesa, in quanto è la più utilizzata negli incontri di massa dei fedeli provenienti dai vari continenti, specialmente quando è presente il Papa a Roma o in altri Paesi. Di certo è quello abitualmente e ampiamente usato nei vari ambiti e ad ogni livello di tutta la Curia Romana”, ha osservato monsignor Paolo Rizzi, officiale della Segreteria di Stato, intervenendo agli Stati Generali della lingua italiana nel 2018.
Ma naturalmente non è soltanto la lingua del territorio vaticano, in quanto il suo utilizzo e la sua valenza varcano i confini del piccolo Stato e si affermano a livello internazionale, sancendo il felice dispiegarsi del “matrimonio” tra la Chiesa e l’italiano che la storia ha officiato.
In italiano, poi, sono tenuti i corsi delle Università Pontificie a Roma, frequentati da studenti in larga parte stranieri, costituendo un vivace luogo di incontro tra lingue e culture differenti, che trovano nell’italiano un terreno comune di scambio. Così come la presenza di numerosi missionari italiani in varie parti del mondo, soprattutto nelle zone più remote del pianeta, diviene un potente veicolo di trasmissione della lingua di Dante e di Petrarca, mentre viene portato avanti il lavoro sociale e pastorale.
L’edizione principale del quotidiano della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, inoltre, viene pubblicata in italiano e l’italiano è la lingua capofila nella stesura degli articoli che appaiono sul sito Vatican News, ripresi e tradotti poi in decine di altre lingue.
Pur essendo la Curia Romana una realtà internazionale, nella quale operano ecclesiastici e laici provenienti dal mondo intero, il suo Regolamento Generale richiede a tutto il personale la conoscenza dell’italiano. Stessa regola vale per gli ecclesiastici che formano il Corpo diplomatico della Santa Sede in servizio nelle Rappresentanze Pontificie, per i quali la lingua italiana costituisce uno strumento dispensabile per relazionarsi con gli organismi vaticani.
“L’italiano non è la lingua di uno Stato politicamente ingombrante, troppo potente, caratterizzato da teorie economiche universalistiche che lasciano poco posto allo spirito – ha notato il linguista Claudio Marazzini, docente di Storia della lingua italiana e presidente dell’Accademia della Crusca, in un articolo intitolato “La Chiesa e la lingua: cambiano i Papi, ma l’italiano resta”, pubblicato alcuni mesi dopo l’elezione a Pontefice del cardinale Bergoglio –. L’italiano è una lingua di cultura antica, dovunque apprezzata, ma poco ingombrante, dal punto di vista del moderno potere economico. Non è certo la lingua della finanza internazionale, del capitalismo rampante e di Wall Street”.
“I Papi che sono arrivati a Roma da lontano parlavano bene italiano – ha proseguito Marazzini –. Parlano italiano anche i prelati di alto grado di altre nazioni e di altri continenti, i portavoce della Santa Sede, i religiosi convenuti a Roma, e persino molti pellegrini”.
“I Papi cambiano, ma continuano a parlare italiano. Tutto il mondo, nelle grandi occasioni della Chiesa, pensa all’Italia e guarda a Roma, dove si svolgono eventi di portata mondiale – ha concluso Marazzini –. Roma, in quei momenti, non è più la piccola sede di una politica locale di una nazione tra le tante: la posizione dell’italiano, agli occhi del mondo, diventa ben maggiore grazie alla Chiesa di Roma, alla sua capacità di attirare nella Città eterna le masse, costringendole indirettamente a vedere e toccare l’Italia e la sua lingua. E resta il fatto che molto spesso la Chiesa, per bocca dei suoi Papi non italiani di nascita, ma italiani di adozione, parla italiano”.
Grazie alla sua universalità, la Chiesa cattolica è insomma ritenuta, a buon diritto, il più potente strumento di diffusione della lingua italiana oggi attivo nel mondo.
Luca Caruso